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Stadera – Gastronomia Contemporanea

Il bell’equilibrio della nuova Stadera

“Da grande io voglio fare il posto fisso” affermava Checco Zalone, in una pellicola dove interpretava il piccolo scolaretto interrogato sulle sue future ambizioni. Noi in questa tornata ci permettiamo di cambiare il pronome “IO” con l‘articolo “LO” voglio fare il posto fisso”.  Alludiamo al talentuoso Aldo Ritrovato, che giusto all’incrocio del dedalo milanese tra Corso di Porta Romana e Porta Vigentina, ha il suo ristorante Stadera – Gastronomia Contemporanea. Il posto, va ammesso, è minuscolo, ma pullula di avventori che conoscono e riconoscono la bontà di piatti e idee di Ritrovato (no stop!). Qui l’asporto va tranquillamente a braccetto con la possibilità di sedersi al banco, indugiando tra le pirofile esposte. Ad andare in scena sono origini e storia cilentana della tavola: mozzarella di bufala, verdure ‘mbuttunate, ciambotte, sartù e pastiere. Ma oltre a piatti che alternano rotonde proposte conosciute ci sono anche inaspettati golosi balzi creativi.

Posto fisso per la pausa pranzo, cena o altro momento della giornata. La proposta varia attingendo ai grandi classici eseguiti in ineccepibile maniera da questo giovane Chef che vanta esperienza al fianco del gigante campano Gennaro Esposito.

Campania Felix

La Campania Felix dal suolo generoso e prolifico con Ritrovato si estrinseca anche nella sua dimensione vegetale regalando sontuose verdure. Nella nostra visita, a chiusura avviata dell’inverno, Ritrovato cala un Tris tra cavolo nero saltato, scarola ripassata con le olive e la verza con salsa all’agro a svelare l’abilità tecnica del cuoco nel manipolare questo versante della materia. Il Vitello tonnato, che proprio qui in città ha visto la sua nuova primavera, è impreziosito con il peperone crusco, a rendendolo ancora più stuzzicante. La Pasta mista è coraggiosa nel suo ardore piccante e setosa nella mantecatura, maritandosi a cozze e cavolo nero. La Ricciola scottata, cruda e affumicata sintetizza tre versioni saggiamente eseguite dello stesso pesce, differenziandolo. Cottura al punto per quella rapidamente arrostita; affumicata per farci un brodo, insieme all’alga a mo’ di zuppa di pesce coi suoi obbligati crostini; cruda, infine, per posizionarsi in mezzo tra centralità dell’ingrediente e matrici orientali con il pak-choi grigliato a donare ulteriore nervo al piatto.

Ma la cucina, qui, è anche sala. Aldo Ritrovato prende la comanda, consiglia il bicchiere giusto, rifinisce il piatto e ritorna in cucina. Lo stesso anche la sua brigata, sorridente al bancone, racconta il piatto che si accingono a servire. Colpiscono due cose. Su almeno dieci clienti che entrano, due sono convinti di entrare nella tabaccheria vicina, e non capiamo il perché. Gli altri che si siedono, invece, hanno capito che “da grande, Aldo, ha davvero creato il posto fisso!”

IL PIATTO MIGLIORE: Pasta mista con cozze e cavolo nero.

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Altri piatti degustati di recente.

Yin e yang

Arriva un momento nella vita lavorativa in cui la summa delle esperienze passate è tale da rappresentare ideale e quasi obbligatorio trampolino di lancio: un rischio che però permette di mettere a frutto le abilità duramente accumulate nei lunghi e faticosi anni precedenti. Se lo si può fare con l’adorato fratello col quale, come yin e yang, ci si completa e ci si integra caratterialmente in modo perfetto, allora il rischio viene almeno già parzialmente ammortizzato in partenza. I fratelli Capitaneo, da Foggia, Remo Capitaneo e Mario Capitaneo in ordine di età, hanno maturato un curriculum deluxe essendo passati per Berton al Trussardi, Crippa ad Alba, un’esperienza molto formativa di Mario con il Maestro Marchesi e, soprattutto, più di 10 anni in un rapporto da pari a pari a fianco di uno dei massimi Chef italiani contemporanei: Enrico Bartolini. Da gennaio 2023 al secondo piano di piazza Duomo 21 in quella che era una ex enoteca ha preso corpo il loro progetto: Verso, un vero e proprio palcoscenico dominato da onice e marmo, boiserie e acciaio dove in una cucina integralmente a vista i piatti prendono vita letteralmente davanti agli occhi dei clienti seduti a tre banconi disposti intorno ai piani di lavoro dei cuochi.

Una cucina, la loro, che non fa dei contrasti e delle acidità la sua identità e che piuttosto risolve se stessa in composizioni di sapori che, sovrapposti, attraverso sorprendenti verticalità trovano loro ragion d’essere. Una cucina che ha una rotondità di fondo che non è mai stucchevole né monotona ma che si aggiunge a originale vivacità e a una composita risolutezza volta a esaltare le materie prime, accuratamente selezionate a partire dall’amata, e mai dimenticata, Puglia.

Una grande cucina

Una cucina d’autore perché lo stile dei Capitaneo si evidenzia stagliandosi netto attraverso piatti che restano impressi come l’Animella, già diventata signature, accompagnata da una bernese sifonata con burro chiarificato in cui un sapiente chicco di caffè dona una nota tostata amplificata dall’effetto aromatico di poche e opportune gocce di espresso e terminata dalla nota salina del riccio: grasso, speziato e sapido racchiusi in pochi, splendidi bocconi. Squisito, ancora, lo Spaghettone Santoro mantecato con polpa di granchio e brodo di carapace che, per esaltare la dolcezza del crostaceo non aggiunge pomodoro né verdure ma la affianca a una salsa di marasciuoli, pianta spontanea pugliese, che col suo effetto amaricante simile alla senape dona una convincente nuance al piatto completato da una sapiente nota acida del finger-lime. Lo squisito Agnello delle Dolomiti lucane targato Varvara con crema di peperoni di Senise sarà accompagnato da un fagottino di melone “cartucciaru” ripieno dello stesso peperone, però in saor, per una pietanza di convincente compiutezza. Allo stesso modo lo splendido Astice si abbina a una trippa di vitello in un sublime surf and turf corredato da zucca in cartoccio e un eccellente ketchup di ribes certificando che un viaggio comfort non è tale solo per gli ingredienti utilizzati ma anche per le idee e la personalità a essi applicate. Il binomio c’è, la location anche e i fratelli Capitaneo si sono fatti grandi. O forse lo sono sempre stati.

IL PIATTO MIGLIORE: Animella, bernese al caffè, ricci di mare.

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Una rincuorante certezza

Visitare Il Liberty di Andrea Provenzani è ogni volta una rincuorante certezza in una Milano in perenne transizione, trambusto e allestimento. Appena entrati nel suo delizioso ristorante – adornato di elementi architettonici che richiamano coerentemente lo stile Art Nouveau da cui prende il nome l’insegna – l’atmosfera ovattata, le luci morbide e il servizio in punta di piedi del personale di sala ci fanno dimenticare un attimo la frenesia della città e l’affaticamento di una giornata complicata.

La tecnica del cuoco e proprietario, che qui si applica con costanza da 22 anni, è volto alla cucina della tradizione che in parte attualizza con compimento affidabile; approccio coerente che traspare appieno anche nella sdilinquente Pasta e patate, di per sé piatto rustico e pop, che insaporisce con un tocco di filante provola dolce, una miscela preziosa di bacche di pepe e uno zing di limone verde, rendendola raffinata e lieve al palato. I Cappelletti Ferraresi (omaggio alle origini materne di Provenzani) al burro e salvia su spuma di Parmigiano 36 mesi, forse questa un filo sovrabbondante, sorprendono per la leggerezza umettata e gustosa della loro farcia.

Tradizione fusion

L’impronta esperta di Andrea Provenzani è di chi sa fare il suo mestiere con tocco concreto, senza perdersi in inutili infiorettature, ma che si palesa anche quando si cimenta con piatti di stampo fusion – pietanza peraltro migliore di questa degustazione – come la Asian Cassoeula: deliziosi gyoza a vapore ricolmi di cassoeula, il suo fondo, crudo di calamaro, lime, sesamo, cipollotto, alga nori e verza il cui esito finale risulta sì appetitoso e sapido ma mai greve, mentre la Tarte Tatin con scalogno al vino rosso speziato, con Gorgonzola naturale, noci, maggiorana e pere marinate al Cognac di Champagne sebbene ghiotta e ricca al boccone, impegna infine un filo il palato per la sua difficile masticabilità. Ottimo e aggraziato il Bollito misto composto da cinque tagli assortiti, presentato in piccoli trancetti di ciascuno prima scottati ‘a la plancha’, passaggio che conferisce loro un’ottima sigillatura e sapidità, accompagnandoli a diverse stuzzicanti salsine e del brodo in tazza da sorbire appena tiepido.

Carta dei vini densa e interessante per la selezione accurata di etichette quasi unicamente nazionali eccezion fatta per tre sezioni dedicate agli Champagne, ai Bianchi e Rossi delle terre di Francia e a quelle Slovene. Equa e variegata anche la proposta al calice.

IL PIATTO MIGLIORE: Asian Cassoeula.

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Da Davide Oldani la classicità non è mai stata così moderna

Anatra in due servizi. La parte del petto cotta a bassa temperatura e, quindi, leggermente arrostita e scaloppata. Sopra, una cialda croccante, tartufo nero pregiato di Norcia e Salsa Perigueux. A lato, filetto di petto marinato e la nota amara del Pak choi. A seguire il secondo servizio: la coscia brasata e sfilacciata, all’interno di una sfoglia di pane arrostita, sopra una polvere di limone nero. Ci siamo dilungati un po’ nella descrizione perché, pur essendo ancora all’inizio dell’anno, l’anatra presente nel nuovo menù del ristorante D’O si candida seriamente a essere uno dei nostri Piatti Top del 2024.

Magistrale per esecuzione e concentrazione gustativa, questo capolavoro di classicità – sia detto per inciso che pochi cuochi italiani hanno una conoscenza delle basi fondamentali classiche della cucina (che parlano francese, ça va sans dire) paragonabile a quella di Davide Oldani – proviene da un cuoco che oltre a essere stato uno degli allievi prediletti di Gualtiero Marchesi, si è formato nelle cucine di giganti quali Alain Ducasse e Michel Roux jr. E come lui, il bravissimo sous chef Alessandro Procopio che lo stesso Davide Oldani ha voluto maturasse a sua volta esperienze a Le Gavroche, al ristorante di Troisgros, a Roanne, e al Plaza Athenée di Ducasse, a Parigi.

Una cucina in grande equilibrio

Ma torniamo in Italia perché è giusto parlare anche di un Risotto meraviglioso che, sul piano estetico ma anche su quello più squisitamente tecnico, non sbaglieremmo a definire marchesiano per pulizia e purezza quasi sacrale degli ingredienti. Che qui è un solo ingrediente, la seppia, declinata in diversi modi: alla base del piatto una Royale di nero di seppia, all’interno seppioline scarpetta, sopra un disco di gelatina al nero di seppia e mantecatura con burro e purea di seppia. Un solo ingrediente a tutt sapidità, iodio, consistenze, armonia. E che dire della riproposizione di quel capolavoro dolce e salato che è la Cipolla caramellata nella versione “a portata di mano” scomposta, da mangiare all’orientale avvicinando il piatto al viso con una posata particolare, ideata dal Davide Oldani designer. Un grande menù, insomma, che è anche un ragionato crescendo in cui si raggiunge il corretto equilibrio dei contrasti tra dolce e salato, caldo e freddo, acido e grasso, morbido e croccante, e una grande cucina che guarda all’essenziale e in cui non c’è spazio per il superfluo o per “aggiunte decorative”, tale che anche il pane – Pane sfogliato e Fougasse strepitosi, sia chiaro – hanno un ruolo centrale al D’O.

La brigata, giovane e coesa, si armonizza con la sala, popolata di ragazzi bravissimi, intelligenti, garbati, sui quali vegliano fuoriclasse come Davide Novati e il premiatissimo sommelier Emanuele Pirovano. In sintesi un luogo, questo, nel quale si respira aria buona, un clima sereno, e non è scontato soprattutto a questi livelli.

IL PIATTO MIGLIORE: Anatra.

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La bistronomia di periferia di Matteo Fronduti

“Aldo Fabbrizzi”, “Banalissimo”, “Uè”, “testina”, “Riassunto di bollito”, “Ha vinto la tartaruga”, eccetera. Il primo sentimento che regalava il menù del Manna nel momento in cui si sfogliavano le pagine era un sorriso. Di quelli spontanei e divertiti dopo il quale si rischiava di non prendere sul serio la cucina di Matteo Fronduti. Ebbene, dietro questi nomi altisonanti si nascondeva una cucina ad alto tasso di personalità, a tratti molto golosa ma, soprattutto, bilanciata al millimetro tra contrasti di vario tipo, mai reiterati tra un piatto e l’altro.

Quest’anno, dopo una piccola ma necessaria pausa in cui il locale si è praticamente trasformato da ristorantino di quartiere con interni anonimi e spartani in un elegante spazio con ampie vetrate, studiati giochi di illuminazione ed una cucina, finalmente, degna dell’estro del suo cuoco, i divertenti nomi dei piatti sono – ahinoi – scomparsi. A differenza dei piatti del cuocone milanese, quelli ci sono sempre e si sono consolidati tra le creazioni più accattivanti, con quella centralità gustativa e la giusta sostanza da non poter passare inosservato.

Deliziose “Porcherie”

Il menù “Porcherie” – il più audace rispetto agli altri due presenti in carta – è l’evoluzione di una degustazione a tiratura limitata servita qualche anno fa dal titolo “Ignoranza Ovvero Della Cucina Volgare” – in goliardico onore (leggasi sprezzo) per l’ascesa al governo del Movimento 5 Stelle – dove si affacciavano alcuni notevoli assaggi quali Grasso di manzo, sgombro, Leche de tigre e arachidi, i Gelato di tè Hojicha, Bottarga di tonno e pepe di Sichuan, il Rognone, ricci di mare, prezzemolo e gin e, in chiusura, il dessert: Pasta in bianco e milza. Quello era un esperimento per capire fino a dove si riusciva a spingere il cliente abituale del Manna.

Oggi invece, questo percorso più audace vuole diventare la normalità espressiva di Fronduti. Tra i nuovi assaggi, c’è l’intrigante gioco di consistenze molli della Seppia cruda, limone bruciato, midollo e melissa dove il midollo, a differenza di quanto si ci aspetti, è l’elemento che dona sapidità ad una purea di seppia, in proporzione predominate, che mantiene una costante nota iodata del piatto riequilibrata dall’amaro del limone; l’Animella con spinaci e ostriche in cui il bilanciamento dei tre ingredienti si gioca su note grasse – erbacee – amare (per via dell’ostrica arrosto), a tratti disturbante al palato ma, alla fine, compiuto nell’insieme. Lo Spaghetto in bianco (grana, aceto invecchiato e salsa Worchester) chiude, nella sua inaspettata veste di dessert salato con predominati noti acide, il percorso prima di un assaggio di selezionata frutta che anche se non tutta di stagione, vivaddio, è buona.

Alla carta, oltre a molte certezze – Zuppa di cipolle, Fegato grasso e pasta sfoglia, Pacchero, conserva di pomodoro affumicato, peperoncino e limone – troviamo qualche azzardo come Riso, mortadella di milza, marsala, caciocavallo e pane tostato, per palati allenati.

La nuova veste del Manna vede anche l’introduzione di un cocktail bar – concepito per operare autonomamente rispetto al ristorante – che può rivolgersi anche a un pubblico diverso, consapevole della possibilità di recarsi dal tardo pomeriggio a tarda sera, per un’opzione spesso non disponibile nei dintorni. Per un aperitivo ogni drink viene accompagnato da un assortimento di stuzzichini. In tutto ciò registriamo qualche disattenzione nel servizio – il ritmo di sala comunque è serrato – e qualche posata e stoviglia non sempre adeguate alla corretta fruizione del piatto. Ora che Fronduti ha alzato il tiro – anche in termini di offerta economica – i dettagli devono essere parte integrante dell’esperienza e, per questo, ci aspettiamo che tutto giri senza intoppi, come succedeva al Manna nella sua versione più spartana.

IL PIATTO MIGLIORE: Seppia cruda, limone bruciato, midollo e melissa.

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