Per scoprire il fascino dell’Andalusia bisogna partire dal suo capoluogo: Siviglia.
Luogo intriso di grande storia, uno degli emblemi del profondo sud iberico. Città sacra della “semana santa”, ma allo stesso tempo profana, tra il sensualissimo flamenco e i sanguinari spettacoli della corrida. Siviglia vive tra usi e costumi tramandati nei secoli e che oggi sembra difficile poter stravolgere. Uno di questi è la cultura gastronomica rappresentata, soprattutto, dallo Jamon de Jabugo, dal gazpacho o salmorejo e da una costellazione di esercizi (i famosi tapas bar) in cui concetti come convivialità e semplicità prevalgono su altri come comodità e lusso.
Traspaiono abitudini talmente radicate nella storia di questo incantevole posto, tali da mettere a dura prova qualsiasi tentativo di proporre qualcosa di diverso.
A Siviglia, rispetto ad altre città spagnole ed europee, la ristorazione gourmet non sembra essere ritenuta indispensabile e, in tale situazione, diventa impresa davvero ardua proporre un certo tipo di cucina, specie se un’alta percentuale di fatturato giunge da un turismo straniero che sfoga i propri istinti golosi nella miriade di bodegas, tra tapas e cerveza.
Nella sua diversità il ristorante Abantal, “grembiule” in castigliano antico, è considerato il migliore della città. Giustamente decentrato dalle rotte turistiche e dalla movida notturna, da un lato offre la sicurezza di poter godere di una materia prima di ottimo livello e di un servizio preciso e cordiale, dall’altro non suscita particolari emozioni.
Impostazione classica con tutti i crismi, location dagli interni minimalisti e luminosi, servizio molto professionale e poliglotta e cucina gourmet. Quest’ultima, non al livello che ci saremmo aspettati.
Nel percorso gastronomico provato alla tavola dell’esperto Julio Fernández Quintero hanno un po’ latitato i concetti evocativi della tradizione spagnola, trascurati per far posto ad alcune derive fusion, a tratti anche piacevoli. E’ la classica dimostrazione che per trasmettere buone vibrazioni dalla gola al cervello non bastano ottime materie prime ed esecuzioni da manuale.
Ma almeno non è un’esperienza impegnativa a livello economico, difficile infatti superare i 70€ includendo nel percorso un’interessante degustazione di vini in abbinamento.
Canapè iniziali. Da destra a sinistra: cracker con fegato di pescatrice, tonno e patate, spuma di gorgonzola e biscotti, chorizo e parmigiano.
Ottimo pane di varie tipologie.
Prugna, mandorla e un ajoblanco predominante.
Un bollicina della casa.
Noodle allo sherry su crema di alghe, gamberi al vapore, pinoli tostati e cefalo affumicato. Un po’ evanescente la concentrazione dello sherry ma nel complesso il piatto è ben bilanciato tra differenti modulazioni iodate.
Dettaglio del noodle.
Ostrica tiepida su crema di cavolfiore, cardo e ginepro. Riuscito e collaudato.
Secondo abbinamento al calice.
Tartare di polpo con sorbetto all’aceto balsamico e pomdoro. Qui il caldo-freddo spezza la monotonia della preparazione.
Dentice atlantico con budino di porro, aglio nero, sottaceti e cipolle.
Si passa al rosso
Controfiletto con porri gratinati al formaggio di capra e salsa di aneto. Un semplice ma ottimo taglio di carne, cottura bleu. Saporito e ruffiano il contorno.
Un interessante vino locale, una sorta di passito al profumo di arancia.
Pre-dessert scolastico: crema al frutto della passione, frappé alla menta e cioccolato.
Troppo dolce il cannellone pesca e arancio, ripieno con formaggio e mousse di cioccolato bianco.
Terminato al tavolo con una zuppa di lemon grass a conferire più freschezza.
Caffè e piccola pasticceria.
Interni
Quella delle tapas è una tradizione lunga sei secoli. Intramontabile e affascinante, icona di una nazione intera. Già nel 1670, a Siviglia, El Rinconcillo serviva le squisitezze locali in formato aperitivo, spianando la strada a tutti gli altri esercizi cittadini e lanciando una moda anche nel resto del paese. Qui si respira un’aria spensierata, scanzonata, ed è proprio in luoghi come questo che si comprende come alcune città possano anche oggi offrire realmente un’alternativa ai formalismi di una ristorazione tradizionale.
Il modo usuale, infatti, con cui si vive un tapas bar è quello della convivialità: si entra in compagnia, si mangiano piccoli bocconi, si beve e poi si cambia volentieri locale. Avventori abituali e turisti non si fossilizzano davanti ad un’unica insegna, specie da queste parti. Noi invece abbiamo fatto il contrario, assaggiando diverse preparazioni e trattenendoci più a lungo del solito, per comprenderne soprattutto se la qualità fosse direttamente proporzionale al blasone e al flusso di clientela di cui gode questo locale, il più antico della Spagna del Sud.
Al Rinconcillo c’è la possibilità di accomodarsi al tavolo, anche se la tradizione impone di stare in piedi attorno al bancone e ogni cliente si interfaccia esclusivamente con un proprio cameriere che si diletta a servirlo, in maniera personalizzata e alla velocità della luce. Man mano che si ordina, poi, viene segnato sul bancone il prezzo di ogni pietanza con un gessetto, e così fino al calcolo del conto finale.
Se l’atmosfera del luogo è in grado di entusiasmare consentendo un salto nel passato, la delusione arriva proprio dalla qualità di molte tapas. Bene gli affettati, un po’ meno i piatti usciti dalla cucina. In alcuni assaggi abbiamo notato palesi inconvenienti tecnici, come le fritture unte e bollenti all’interno o come le patate, probabilmente riscaldate al microonde. Più soddisfacenti si sono rivelati piatti principali come il saporito e morbido agnello, con una giusta quantità di grasso, o lo stufato di maiale, semplice e molto tradizionale. Sotto il profilo sostanziale, una cucina complessivamente inferiore rispetto ad altri tapas bar della città.
Bartender multitasking, qui alle prese con la pulizia di un pata negra.
Jamones pata negra in vista.
L’immancabile gazpacho, in questo caso con un quantitativo di cipolla di difficile digeribilità.
Baccalà al pomodoro. Leggermente troppo sapido.
Crocchette della casa (con patate e formaggio). Ne sarebbe bastata una…
Guanciale di maiale iberico in umido. Finalmente un’esecuzione degna di nota.
Calamari giganti fritti. Davvero poco incisivi e porzione abnorme.
Costolette di agnello con patate (da dimenticare) e funghi.
Torta di formaggio (una cheese cake) con confettura di fragole,
che si va ad addizionare al resto;
…ed ecco il conto finale!
Interni.
Il bancone.
Ingresso.
Recensione ristorante.
C’era una volta un delizioso bistrot in un piccolo villaggio de Les Alpilles.
Bistrot per modo di dire.
Bistrot bistellato contraddittorio di arredamento minimale soft e cucina rutilante baroccante.
Ora, nei nuovi spazi , in aperta garrigue provenzale, la cucina di Wout Bru sta vedendo orizzonti più vasti, energia nuova, più ampia di respiro e meno costretta alla verticalità dei piccoli spazi dove le costruzioni sovrapposte potevano imbarazzare per eccessi di sia pur nobili ingredienti.
Food cost alti, elementi primari come prime donne in abito da sera, soluzioni gustative non sempre però prevedibili.