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Iyo

Giovani forchette alla riscossa. In questo spazio di PG, raccogliamo dunque testimonianze, racconti, itinerari e segnalazioni di giovani penne dall’attitudine ‘buongustaia’, che autonomamente hanno trovato affinità con il nostro approccio. Non sarà consentito loro, per ora, di esprimere un voto, ma solo commenti e descrizioni della loro esperienza. Il canale ‘Young Forks’: ai giovani parole e forchette, a voi la lettura.

Perfetta semplicità

Da anni punto di riferimento per i milanesi che cercano una cucina giapponese di livello, il menù degustazione “I classici” del ristorante Iyo tiene fede alle promesse con una proposta che eleva i piatti più conosciuti dagli amanti dei sapori orientali ad un gradino superiore grazie a una tecnica perfetta e alla elevata qualità del pescato.

Equamente divisa fra portate calde e fredde, la proposta vede come assoluta protagonista la materia prima, in tutta la sua semplicità. Si parte quindi con un’alice temaki sfizioso e rotondo, in cui la ricotta di bufala e l’alice si fondono alla perfezione. Si continua con il sashimi di berice, salmone e ricciola, con la puntuale spruzzata di sakè nella salsa di soia per esaltare ancora di più il sapore del pescato e con i nighiri, il cui riso ancora tiepido non è più solo un sottofondo ma un piacere a se stante.

Degni di nota anche gli ebi gyoza, nei quali l’aggiunta del sedano lega il piatto ai profumi accoglienti dei nostri brodi invernali ma, menzione di merito, sicuramente, va ai gunkan in cui il pesce si scioglie in bocca esprimendo tutto il suo potenziale, ancora più che nel sashimi.

Il servizio è accogliente e cortese e il sommelier si muove sapientemente nella vastissima selezione di vini e di sakè, riuscendo a soddisfare i gusti di ogni commensale.

Unica nota stonata, i dessert, occidentali: ci saremmo aspettati dei dolci giapponesi, ma quelli proposti sono comunque ben eseguiti. L’ambiente è ampio ed elegante, molto curato ma, forse, un po’ rumoroso.

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Iyo: il ristorante fusion perfetto

Uno dei ristoranti di maggiore successo in città, da ormai tanti anni, è un giapponese, anzi, forse l’appellativo più appropriato è fusion, di stampo giapponese, ma con un accento italiano.

Iyo, gestito dalla famiglia Liu, tra i ristoratori più lungimiranti della città (imperdibili anche Ba e Gong, anch’esse fusion ma di base cinese), è un gioiellino, sotto diversi punti di vista. L’offerta gastronomica in primis, costante come poche, accompagnata da una imponente carta dei vini, con la sezione dedicata a Champagne e sakè che ha una vastissima scelta di etichette, una location perfetta per questa esperienza, con luci soffuse e, dulcis in fundo, un servizio di sala dinamico, sopra le righe.

Ecco il segreto del successo di Iyo che, non a caso, fa parte della ristretta cerchia di ristoranti “asiatici” in Europa a fregiarsi dell’ambita stella Michelin.

E la cucina? Molto buona, per sensibilità di lavorazione del prodotto, rotondità del gusto ed opulenza di ingredienti (pensiamo alla scelta del caviale, ricaduta sulla varietà Kaluga Amur, il più pregiato in commercio, o al wagyu). Non è una cucina che fa sobbalzare dalla sedia con colpi d’ala particolari, ma è tecnicamente inappuntabile, delicata e livellata verso l’alto. Il menu ha il solo difetto (per molti comunque è un pregio) di avere una scelta troppo vasta, essendo suddiviso in sezioni di preparazioni (nigiri, roll, entrate, paste, etc.) la cui consultazione rischia di risultare dispersiva.

Ciò detto, non venite qui per il sushi, anche se è ottimo, ma per assaggiare le originali creazioni di Michele Biassoni, giovane chef già alla corte di Cracco, che predilige intelligentemente la commistione di ingredienti italiani e internazionale con basi e tecniche giapponesi. È il caso degli Spaghetti di grano saraceno, crema di tuorlo d’uova, fagiolini, tartare di gamberi e zenzero in tempura, che vuole richiamare una carbonara orientaleggiante, o l’ottima insalata di erbe, garusoli, cetriolo e salsa ai 3 oli al peperoncino che ricalca le basi di una insalata mediterranea. C’è anche qualcosa di avulso dal contesto, come il petto e la coscia di quaglia francese che, nonostante la salsa a base di miso rossa, si avvicina più alla cultura transalpina risultando, in ogni caso, uno dei migliori piatti della serata.

Come avrete inteso, consigliamo quindi un’esperienza a tutto tondo come quella del degustazione “Faccio Iyo”. La valutazione, arrotondata per eccesso, ci sembra corretta per segnalare il punto di riferimento della cucina fusion in Italia.

Ci auguriamo quindi che, nonostante la sua proverbiale costanza, Iyo continui la sua ascesa verso la ricerca e la novità, come ha fatto nel corse degli anni, alimentando la luce del suo faro interiore, oggi già molto abbagliante.

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David Chang e la contaminazione positiva, a New York

Star mediatica, David Chang spopola nelle serie del piccolo schermo e su Netflix, dove lo conosciamo come grande ristoratore e imprenditore, proprietario di un impero che conta una ventina di ristoranti ai più disparati livelli,  sparsi per tutto il globo terraqueo di cui nessuno, purtroppo, nel Vecchio Continente.

Ed è un vero peccato perchè David Chang e il suo fiore all’occhiello, ovvero il suo ristorante principale, il Momofuku Ko, ci sono piaciuti davvero tanto, e da specie pensare che molte delle preparazioni che ancora qui si trovano, e si ripetono come un rituale, al Momofuko Ko sono state pensate anche 15 anni or sono.

In pellegrinaggio, nel luogo dov’è nata la fusion

Una cucina contaminata nippo-cino-koreano-occidentale con tanto gioco, tanti sbeffeggi, tante irriverenze ma anche tanti, tantissimi contenuti, ancora oggi attuali. E andare in pellegrinaggio in luoghi così, in cui la brigata attenta ripercorre pedissequamente gli ormai storici signature dish è qualcosa di sensazionale, perché permette di entrare nel vivo di un pensiero di tale freschezza, originalità ed evoluzione, da restituire la misura di cosa accade quando un’avanguardia è così forte e prosperosa da tramutarsi in classico.

Non è un caso che pensiamo ancora al pac-man d’uovo, ai ricci con i ceci e olio d’oliva, all’ostrica di pollo come un chicken nuggets, all’anatra e berries fermentati, alla crema di semi e riso selvatico come dolce… sono questi i piatti che hanno generato, e siamo certi che li avrete anche voi, vedendoli, tanti, potentissimi deja vù.

Una tappa non obbligata, ma stra-obbligata, insomma, se vi trovate a New York!

Merluzzo e patata dolce!

L’uovo pac man, semplicemente strepitoso!

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La cucina fusion di Luca Catalfamo

Quando ci si accorge di tornare in un locale con una frequenza decisamente superiore a quella media e di uscirne ogni volta convinti di aver fatto una buona scelta, significa che si è stati in un posto speciale.
Casa Ramen Super lo è. E, in una Milano sempre effervescente di novità di ogni tipo, continua a essere uno dei locali più divertenti e convincenti.
Questa guida non ha mai troppo elogiato la cucina “fusion”, spesso faticando a capirne il senso e a trovarne dei risultati degni di nota, ma qui la musica è diversa.
Si intuisce la passione per il Giappone di Luca Catalfamo, elemento che lo ha portato ad aprire prima Casa Ramen e successivamente il parente “Super”. Emerge, però, anche la voglia di non ripetere in maniera pedissequa quanto visto in terra nipponica, ma semmai di proporre lo spirito degli izakaya moderni, locali frequentati dopo il lavoro in cui ci si rilassa bevendo e mangiando e che in Giappone riscuotono un grande successo.
Uno spirito, che è fatto di contaminazioni sapienti di ricette tradizionali con tocchi nuovi, magari ispirati ad altre cucine, ma mai gratuiti; della ricerca dell’umami senza grossolanità, perché in un ristorante di questo tipo si deve mangiare con gusto e gola senza vergognarsene; quindi la cura maniacale per gli ingredienti usati, che possono rendere una buona idea un gran piatto.

Una cucina elegante e originale

L’offerta è ampia, da un convenientissimo Omakase di bao – qui a nostro avviso il menu ha il rapporto qualità/prezzo migliore in città – a una carta sempre in movimento che, prima ancora dell’offerta di ramen, offre alcune chicche imperdibili, come i diversi tipi di dumplings, difficili da non riordinare a ogni visita. Proprio durante l’ultima visita ci ha davvero impressionati l’eleganza del Chawanmushi con granchio, degno di una ristorazione anche più nobile, ma i ramen estivi non sono stati da meno. Anzi, impressionanti. Eccellente la declinazione fredda del Curry ramen con gamberone e baccalà ed elegantissimo il Wagyu ramen con brodo niboshi, in cui i noodles sono preparati con un mix di farina italiana e tapioca.

I dolci sono degli “Wa-sweets”, cioè né wagashi di tradizione giapponese, né yogashi occidentali, ma un mix per golosi pop e divertente, incarnato perfettamente dai dorayaki accompagnati dal gelato al pistacchio. Lasciatevi spazio per provarli, perché ne vale la pena. In altre occasioni abbiamo anche provato un flan davvero degno di segnalazione.
Servizio cortese ed efficiente, piccola selezione di vini e saké fatta con cura e perfino il problema degli odori provenienti dalla cucina superato. Diventa difficile trovare motivi per non consigliarlo con calore…

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“Street Fusion o Muerte. Match di sapori contaminati tra Spagna, Asia e Sud America nella Metropoli di Londra”.

“No pain no gain”. Non c’è guadagno senza sofferenza. Fisica e mentale, aggiungiamo noi.
David Muñoz è orgoglioso di trasmettere, con questo motto, l’idea della sua cucina vincente. Una crasi figurativa tra la fatica plateale e la frenesia che contraddistingue la sua vita lavorativa, tra successi raggiunti bruciando le tappe e ossessione nel mantenere a livelli costanti tutto quanto creato.
L’olimpo dei cuochi l’ha raggiunto a 33 primavere, con una impressionante velocità: da zero a tre stelle in tre anni. Come lui ben pochi nella storia.

Sarebbe stato un insulto per un cuoco madrileno non mettere la sua firma su una città come Londra, l’ombelico d’Europa, sua seconda casa dopo ben cinque anni trascorsi a bruciare wok in una cucina cinese di grande richiamo come quella di Hakkasan o, ancor prima, in quello che fu il miglior Nobu d’Europa.
Muñoz descrive quella di StreetXO come un’esperienza gastronomica selvaggia e brutale, di “haute cuisine”. Una commistione di sapori che parte dalla grande tradizione spagnola, per poi inebriarsi di sentori asiatici e sudamericani assemblati in piatti dal gusto vivace e colorati.
Questo spin-off dell’originale StreetXO di Madrid è il frutto di un ingente investimento, con apertura prevista nel 2014, che ha visto la luce nel cuore di Londra, a Mayfair, solo lo scorso anno.
Ma l’attesa sembra ampiamente ripagata: il luogo è molto affascinante, con ampio bar e bancone per mangiare direttamente a ridosso della cucina, più una sala che arriva a servire oltre cento coperti.
La cucina si appresta a diventare uno dei posti caldi della capitale inglese. Merito della personalità della cucina “fusion” di Muñoz, che si fa carico di rischi non banali nel servire ingredienti provenienti da tutto il mondo, utilizzare tecniche che alternano avanguardia a schiette cotture da cibo da strada, miriade di salse che fanno a pugni ma, alla fine, vengono dosate con perizia. Muñoz è un perfezionista ben oltre i limiti del maniacale, tutto è dosato col misurino. Un grande cuoco si vede anche da come forma la sua squadra. Nessuno tra i ragazzi in cucina dello StreetXo di Londra aveva mai lavorato con Muñoz, eppure ogni elemento si muove a memoria tra una postazione e l’altra, svolgendo un lavoro che erge il servizio ad un livello decisamente alto per il numero di coperti.
Da StreetXo vi aspetta un’esperienza divertente e per certi versi dissacrante. Appagante, ma non banale. Come la complessità dei sapori racchiusi nello Steamed Club sandwich, in cui le tante componenti grasse (ricotta, maialino, uovo e maionese), dopo ogni boccone, vengono riequilibrate semplicemente dalla menta, o come la cottura dell’eccellente piccione il cui sapore spicca nitido tra una serie toni spezziati.
La carta dei dessert è ancora in progress, ma in alternativa troverete straordinari cocktail “mangia e bevi”, studiati anche per chiudere il pasto. Non tutte le preparazioni sono immediate, ma in un solo caso (con i ravioli di gamberi) il nostro palato si è saturato con celerità; del resto a questo cuoco piace rischiare, sempre.
Il personale numeroso vi inviterà a ordinare non più di 4 piatti a coppia: in realtà le porzioni sono contenute (a differenza del prezzo) e l’ampia scelta, dopo i primi assaggi, vi porterà ad ordinarne all’atto pratico almeno il doppio.

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Mise en place al bancone.
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Alcuni cuochi all’opera.

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“Steamed Club sandwich”.
Si tratta di un bun al vapore farcito con maialino da latte, ricotta fresca, menta, uova di quaglia fritte e maionese al chili. Il consiglio è di capovolgere l’uovo rompendo il tuorlo sul panino. Attenzione: può creare dipendenza!
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Carpaccio di gamberoni imperiali “upside-down fried”.
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Un piatto completato davanti al commensale. Si tratta di un battuto di gamberi con una consistenza da raviolo sui quali viene adagiata una maionese calda…
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…e yuzu. Si chiude il tutto come un raviolo e si mangia in un boccone (un piatto un po’ complesso nei sapori, ma alla fine sempre e comunque gustoso).
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Uno dei bocconi migliori: petto e coscia di piccione cotto sul robata (uno spiedo verticale sui carboni, sorta di barbecue giapponese) macerato nell’achiote (una pianta sudamericana) “migas manchegas” con chorizo e lily bulbs.
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Uno dei signature di Munoz: “La Pedroche”, dedicato alla sua compagna (attrice spagnola).
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Croquettes liquide con kimchi, latte di pecora, ventresca di tonno, bottarga e Lapsang Souchong.
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“Peckinese dumpling”: dumpling farciti con orecchio di maiale croccante, salsa hoisin alle fragole, salsa aioli e sottaceti.
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La rivisitazione della carbonara. “Almost a carbonara Xo style??”. Salsa civet di cinghiale e cocco. Udon saltati nel wok, bacon affumicato, uova fritte e olive nere. Complesso ma intrigante. In una forchettata si va dall’Asia all’Europa con disinvoltura.
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Black Rossejat Paella. Paella di fideua con Ama Ebi (gamberetti boreali) e seppia saltata con kimchi e salsa aioli alle erbe. Una paella in stile catalano, con fideua al nero di seppia, ricci di Hokkaido, seppia cruda e gamberetti fritti.
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L’unico dessert, definibile tale, chiude il nostro pranzo.
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Un signature del DiverXo: la Coda della Pantera Rosa (rabarbaro, pepe rosa, latte di pecora e caramelle Peta Zeta).
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Uno dei fantastici cocktail provati: Ananas cotto lentamente sulla carbonella, rum invecchiato, lime e infusione di fava tonka.
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Passion red!!!!! Ossia gin, Campari, rabarbaro e aria di pomodoro piccante.
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Il counter.
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L’ingresso.
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