Passione Gourmet https://passionegourmet.it La guida completa e le recensioni dei migliori ristoranti e pizzerie Sun, 17 Mar 2024 11:11:36 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.7.11 Disfrutar https://passionegourmet.it/2024/03/18/disfrutar-barcellona-oriol-castro-mateu-casanas-eduard-xatruch/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=disfrutar-barcellona-oriol-castro-mateu-casanas-eduard-xatruch https://passionegourmet.it/2024/03/18/disfrutar-barcellona-oriol-castro-mateu-casanas-eduard-xatruch/#respond Mon, 18 Mar 2024 06:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=160097 Dieci anni su livelli assoluti di eccellenza Dieci anni. Era il 2014 quando il ristorante Disfrutar aprì le porte del suo universo immaginifico al mondo. Sono bastati soltanto dieci anni per infondere infantile stupore a tutti i commensali che hanno varcato la soglia di questo laboratorio di sofisticazione gastronomica in una delle capitali europee più […]

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Dieci anni su livelli assoluti di eccellenza

Dieci anni. Era il 2014 quando il ristorante Disfrutar aprì le porte del suo universo immaginifico al mondo. Sono bastati soltanto dieci anni per infondere infantile stupore a tutti i commensali che hanno varcato la soglia di questo laboratorio di sofisticazione gastronomica in una delle capitali europee più entusiasmanti sul tema. C’è poco da fare e da dire. La cucina del trio Eduard Xatruch, Oriol Castro e Mateu Casañas (quest’ultimo, in verità, più impegnato nel progetto Compatir, a Cadeques) ha un dono, quello di innescare gioia servendo cibo e facendolo con la necessaria empatia per rendere l’esperienza unica e indimenticabile. A tal fine è cruciale anche il lavoro svolto della sala che interagisce con familiare – e informale ma garbata – accoglienza e diventa propedeuticamente parte essenziale dell’esperienza. Un servizio superiore alle aspettative sotto tutti i punti di vista, capace di colpi di classe come l’audacia di rivolgersi verso i commensali per i quali sono state segnalate allergie o intolleranze alimentari.

Prima della tecnica, per Xatruch, Castro e Casañas, c’è l’idea

La critica gastronomica l’ha definita cucina “tecno-emozionale” o comunque hanno coniato nuove terminologie che a distanza di poco tempo sono state comunemente utilizzate per identificare altre cucine. Sgomberiamo il campo da dubbi: chi guida le cucine di Disfrutar è stato parte integrante di quel processo culinario sperimentale e avanguardista (guidato da Ferran Adrià) che ha fatto da spartiacque tra due ere gastronomiche, quella moderna e… l’altra. La loro cucina può essere descritta con un semplice algoritmo: divertimento, stupore e, soprattutto, gusto. Prima di cominciare il pasto, viene consegnato per qualche minuto un foglio con un elenco di parole sparse intitolato “Cosa si nasconde dietro il nostro cibo?” Si leggono, tra le altre, “Sopresa“, “Emozioni“, “Provocazione“, ma anche “Sapore“, “Sensi“, “Consistenze” e tanto altro. Leggerlo si rivelerà interessante in quanto tutto verrà matematicamente riscontrato al momento degli assaggi.

Un pasto da Disfrutar è un’esperienza epica in cui interazione, contemplazione e divertimento sono scanditi in una sequenza dal ritmo incalzante (di oltre quattro ore che volano in un batter di ciglio) e avvincente. La grandezza di questa tavola può essere riassunta in pochi passaggi che hanno sancito, a nostro avviso, il picco della cena. A partire dalla folgorante partenza all’insegna del minimalismo con i Germogli e la loro concentrazione di sapori, ossia una metafora sulla cucina: la tecnica conta ma non è tutto, anzi, soprattutto in un ristorante dove le peculiarità delle tecniche di preparazioni sembrano imprescindibili; ecco, quindi, che il concetto del piatto ha un valore assoluto quasi esclusivamente nella sua componente materica: il minimalismo di potentissimi germogli di erbe aromatiche coperte da un leggero gel di pomodoro. Ogni singolo assaggio – dal gusto concentrato e distinto – viene resettato da un gel di pomodoro a fungere da riequilibratore. Semplice, vero? Un po’ come la meravigliosa Foglia di fungo, ossia l’idea platonica dell’intensità che dovrebbe sprigionare un singolo ingrediente e, in questo caso, lo fa sotto forma di essiccazione di una zuppa di funghi di incredibile persistenza; ma è tutto un susseguirsi di vulcanica creatività tra piatti scenici, ludici e mirabolanti, però contrassegnati da una disarmante bontà, tutt’altro che scontata. Parliamo, in ordine sparso, di un uovo fritto il cui finto tuorlo racchiude, in realtà, un consommé speziato di gamberi sferificato, il Corallo di amaranto, riproduzione edibile di uno scoglio marino, servito dopo un divertente gioco di prestigio, e la straordinaria Seppia “thai” con sferificazione multipla di cocco dove, ancora una volta, c’è il trionfo dell’ingrediente meno “lavorato”, ossia i piccoli molluschi.

Gli abbinamenti alcolici e analcolici (impressionante, in termini di ricerca e innovazione, il lavoro svolto su quest’ultimo fronte) sono parte integrante dei percorsi degustazione. Occhio però, perché si pescano vini interessanti grazie a una politica di prezzi “conveniente” a questi livelli. La squadra che gestisce la sala – ogni singolo cameriere si verrà a presentare al tavolo con il proprio nome – come detto, è un paniere prezioso di fenomeni e incide con la medesima determinazione della cucina sull’esperienza complessiva. Può sembrare banale – anzi lo è – ma sarebbe al contempo poco credibile non definire Disfrutar e il suo trio fenomenale di cuochi come una delle più divertenti e coinvolgenti esperienze di ristorazione che si possano fare oggigiorno in giro per il mondo.

IL PIATTO MIGLIORE: Seppia “thai” con multi-sfera di cocco.

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Estro Vino e Cucina https://passionegourmet.it/2024/03/15/estro/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=estro https://passionegourmet.it/2024/03/15/estro/#respond Fri, 15 Mar 2024 06:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=158223 Estro, concretezza e appagamento Gratificante. È questa la parola ricorrente da Estro Vino e Cucina, che oltre a una sana dose di misurato, puntuale estro, appunto, propone nei piatti una cucina concreta, esaudendo tutto quello che promette sia nel sito internet del ristorante sia sfogliandone il menù cartaceo una volta seduti al tavolo. Concretezza e […]

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Estro, concretezza e appagamento

Gratificante. È questa la parola ricorrente da Estro Vino e Cucina, che oltre a una sana dose di misurato, puntuale estro, appunto, propone nei piatti una cucina concreta, esaudendo tutto quello che promette sia nel sito internet del ristorante sia sfogliandone il menù cartaceo una volta seduti al tavolo.

Concretezza e verosimiglianza, insomma, nonché una certa propensione all’appagamento, sia in termini di gusto che di porzioni, considerato che proprio l’appagamento ha rappresentato l’insidia più importante della nostra esperienza. Vero infatti è che dopo il Baccalà mantecato alla veneziana con polenta fritta e radicchio stufato non ci è stato possibile ordinare alcun dolce tanta e tale era l’importanza del piatto non solo al palato, dove solo il radicchio concorreva, solingo, a contrastare la montata delle note lattiche, lipidiche e fritte della combinazione, ma anche le proporzioni, decisamente più da piatto unico che da secondo piatto. Premessa, dunque, quella che è stata l’unica vera pecca della nostra esperienza, passiamo ora a raccontarvi la natura di questo solido indirizzo concepito per il diletto del veneziano prima ancora che del foresto.

La cucina del mercato veneziano

Sono, del resto, passati dieci anni da quando i fratelli muranesi Dario e Alberto Spezzamonte decisero di fondere le rispettive esperienze in sala/cantina e cucina per dare vita a un ristorante che di Venezia rappresentare proprio l’hic et nunc: il qui e l’ora che movimentano il menù con una cucina di mercato, quello di Rialto, mentre le verdure arrivano da Sant’Erasmo e la carne, quella dei Fratelli Damini di Arzignano, segnano le tre direttrici, quelle della materia, attorno a cui si articola, si muove e cambia il menù.

A questo proposito, molto soddisfacente il morso, callosissimo, delle solari e profumate Tagliatelle AOP con scampi e crumble di pane mantecato al brodetto di pesce dell’Adriatico, così come, benché in un contesto gustativo di cacciagione, quello dei Bigoli al farro al ragù d’anatra e cervo. Virginali nella loro innocente freschezza, e croccantezza, le canocchie scottate, così come gli accompagnamenti ai crudi, edotti e sempre tesi a enfatizzare il sapore primario.

La cantina, abitata da oltre 700 referenze molte delle quali dal catalogo Meteri che a Venezia è il custode della proposta naturale, contribuisce a rendere l’esperienza ancora più vivida e movimentata, soprattutto tenendo conto che i ricarichi, adeguati, consentono di spaziare a dovere.

IL PIATTO MIGLIORE: Tagliatella con Scampi con crumble di pane, mantecato al brodetto di pesce.

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Piera Dolza: il Torchiato di Fregona https://passionegourmet.it/2024/03/13/piera-dolza-il-torchiato-di-fregona/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=piera-dolza-il-torchiato-di-fregona https://passionegourmet.it/2024/03/13/piera-dolza-il-torchiato-di-fregona/#comments Wed, 13 Mar 2024 14:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=160131 Un vino simbolo di unione, coesione e festa Il vino di cui vi parlo oggi è sicuramente uno dei vini più estremi che l’articolato panorama enologico italiano possa proporre, basti pensare che le uve atte a produrlo sono ancora a riposo e verranno vinificate la prima settimana di aprile, subiscono sei mesi di passitura, perdono […]

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Un vino simbolo di unione, coesione e festa

Il vino di cui vi parlo oggi è sicuramente uno dei vini più estremi che l’articolato panorama enologico italiano possa proporre, basti pensare che le uve atte a produrlo sono ancora a riposo e verranno vinificate la prima settimana di aprile, subiscono sei mesi di passitura, perdono circa l’80% del loro peso, e da cento chilogrammi di questi preziosi chicchi si ottengono solo venti litri di mosto.

Vi racconto di un vino che prende il nome dal luogo in cui è prodotto, Fregona, un grazioso comune situato nell’estremo nord della provincia di Treviso, che si estende su un’area pedemontana a nord-est di Vittorio Veneto e su gran parte dell’altopiano del Cansiglio, includendo alcune delle sue cime circostanti; in particolare il Pizzoc (1.565 m) e il Millifret (1.581 m), la cui vetta rappresenta il punto più alto del comune. Gli abitati si trovano su una zona collinare, con altitudini che raramente superano i 6-700 m. Famoso per le affascinanti grotte del Caglieron, un suggestivo complesso formato da una gola naturale e da alcune cave da cui in passato veniva estratta l’arenaria (conosciuta localmente come piera dolza), menzione che compare sull’etichetta a testimonianza del legame con le tradizioni locali. Con questa pietra è stato anche modellato il basamento che sosteneva lo storico torchio posizionato nella piazza del paese, dove tutti potevano recarsi per la pigiatura dell’uva, una cerimonia che tradizionalmente cadeva nella settimana di Pasqua e continua ancora oggi. Questa pietra, grazie alla sua capacità di assorbimento, veniva intrisa del dolcissimo mosto durante la pigiatura, ammorbidendosi in qualche modo, tanto che veniva chiamata dolce o dolza in dialetto locale.

Il vino in questione è un vino da dessert o da meditazione, il Torchiato di Fregona, un patrimonio culturale ed ambientale che alcuni anni fa ha rischiato l’estinzione ma è stato riportato in vita grazie all’impegno di sette piccoli produttori che hanno deciso di costruire una nuova casa per il Torchiato, ovvero un centro di appassimento unico per tutti, dove poter conservare i loro migliori grappoli. Questo centro si trova in una posizione strategica, precisamente in una gola del Cansiglio, senza barriere naturali o artificiali che lo circondano, e gode di una ventilazione costante che previene ristagni di acqua e umidità, garantendo un’uva più sana e di qualità superiore.

La produzione

I sette associati hanno un unico scopo, sono tutti concordi nell’esaltare il Torchiato e preservare questo patrimonio, uniti nella stessa visione e metodologia di lavoro in vigna e in cantina. I vigneti dedicati alla produzione del Torchiato si trovano tra Fregona, Anzano, Osigo, Montaner, Cappella Maggiore e Sarmede, beneficiando del microclima del Bosco del Cansiglio, che presenta una temperatura media due/tre gradi più bassa rispetto alla vicina Vittorio Veneto, situata a pochi chilometri di distanza. L’Altipiano del Cansiglio, un altipiano carsico, è ideale per i vigneti poiché favorisce la ventilazione anche durante le giornate estive più calde, contribuendo alla salute delle vigne. Il regolamento della cooperativa stabilisce che il lavoro sia principalmente manuale, vietando l’uso di diserbanti e favorendo la falciatura tra le file dei vigneti. I terreni sono argillosi e ricchi di calcare e arenaria, oltre che di ciottoli di origine alluvionale misti a limo ed argilla, tutti elementi fondamentali per la produzione di vini eleganti e di carattere. La conformazione del territorio porta i vigneti a essere divisi in parcelle, spesso con filari singoli che si trovano su terreni in competizione con il bosco circostante.

E non va dimenticato il significativo contributo della Botrytis cinerea (o muffa nobile), che spesso si presenta tra i grappoli. L’uva viene vendemmiata quando è perfettamente matura, talvolta leggermente anticipata per preservare l’acidità, con una raccolta rigorosamente manuale. Questo permette di selezionare e raccogliere i grappoli più sparsi e sani che saranno posti ad appassire nei fruttai. Tra storia e leggenda, il Torchiato di Fregona vede la sua origine in un anno imprecisato del Seicento, quando, in primavera, un contadino trova i grappoli di una vendemmia sfavorevole dimenticati in un granaio. Gli acini, seccati ma in perfetta salute, lo incuriosiscono. Decide di vinificarli con vigore, ottenendo alla fine un vino bianco passito intenso, ricco di aromi e dolce al palato. Questa piacevole scoperta spinge nel tempo altri contadini della zona a fare lo stesso. Ben presto si scoprirono anche qualità insospettate, tanto da farlo impiegare come ricostituente, come rimedio per la tosse e altre malattie da raffreddamento, come tonico per donne incinte e persino per i bambini, ai quali veniva riservato un cucchiaino nelle occasioni speciali. Il successo di questo vino crebbe rapidamente, fino a diventare un’icona, rappresentativa dello stesso paese di Fregona, fiero di averlo visto nascere.

Piano piano questa pratica si diffuse anche nei piccoli appezzamenti sparsi in zona, coltivati principalmente da contadini al servizio dei proprietari terrieri. Ad ogni vendemmia una parte dell’uva veniva nascosta nei granai e destinata alla produzione di questo nettare così dolce ed affascinante. Nel corso degli anni ottenne sempre maggior riconoscimento, diventando il vino per eccellenza del paese. Ogni famiglia metteva da parte l’uva nei propri granai e in primavera si teneva una vera e propria festa paesana, in cui i vignaioli erano protagonisti. Un vino simbolo di unione, coesione e festa, un liquido prestigioso per le grandi occasioni come il matrimonio della propria figlia o la nascita del primo figlio maschio.

Il vino deve essere prodotto con un minimo di 30/35% di Glera, 25% di Boschera e 20% di Verdiso. Dopo la vendemmia vengono conferite solo le uve migliori, selezionate rigorosamente a mano, e riposte in cassettine di circa cinque chili. Una volta portate ad appassire riposano in fruttaio per circa sei mesi: la Boschera per le sue caratteristiche viene adagiata nei graticci, mentre le altre stanno nelle cassettine (invertite almeno una volta portando quelle più in alto in basso e viceversa). Durante i primi venti giorni vengono azionate delle ventole che permettono di asciugare l’umidità contenuta nell’uva, per poi riposare a temperatura ed areazione controllata fino al livello ottimale di appassimento. Circa sei mesi dopo avviene la pigiadiraspatura per poi torchiare le uve, almeno un paio di volte, e talvolta una terza per poter estrarre tutti gli aromi presenti.

La resa media dei vigneti dedicati alla produzione del Torchiato è di circa 80 quintali ettaro ma alla fine del processo, resta un 20% della produzione. Il mosto fermenta un mese, un mese e mezzo a temperatura controllata, poi viene messo a maturare per il 50% in acciaio e la restante metà in barrique esauste da vini bianchi. Il disciplinare prevede un affinamento di un anno e mezzo, ma il vino viene lasciato solitamente riposare due o tre anni invertendo le due masse, trasferendo il vino dalle barrique all’acciaio e dall’acciaio alle barrique. Nelle barriques il vino viene fatto affinare in stile ossidativo, cioè in botti piene per l’80%, lasciando una buona parte di ossigeno , quindi alla fine viene assemblato e imbottigliato, per affinare ulteriormente in bottiglia almeno cinque mesi prima di essere immesso nel mercato. Ogni varietà in questo vino conferisce le sue caratteristiche principali: l’aromaticità della Glera, la freschezza ed acidità del Verdiso e la speziatura e l’acidità  della Boschera. Propio la Boschera è la meno nota, ed è quella che regala al vino una inaspettata acidità che da vigore al vino, i suoi chicchi passiti cono i più piccoli e si colorano di arancione, sono estremamente dolci ma con un’acidità sorprendente!!!

La Boschera è un vitigno a bacca bianca italiano autoctono, originario della zona di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, questo vitigno produce un’uva a bacca bianca, particolarmente adatta all’appassimento, che era chiamata anche uva del prete, a seguito di ricerche coordinate dall’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano Veneto, dal 1992 l’antico vitigno è iscritto nel Registro Nazionale delle Varietà di vite e fa parte dei DOC di Colli di Conegliano e Torchiato di Fregona. Viene coltivata in vigne alte a ridosso dei boschi, produce poca uva, gli acini hanno una scorza dura e puntinata, un sapore fruttato e una marcata acidità. La vinificazione ritardata di uve passite è quasi un obbligo data l’elevata acidicità di questa uva, che altrimenti darebbe un vino povero e facilmente deperibile. Luigi Veronelli, famoso enologo italiano, lo ha descritto come “un brivido verde, minerale e vegetale“.

La Degustazione dei Torchiato di Fregona di Piera Dolza (più un intruso)

Torchiato di Fregona 2016

Si può ammirare nel calice la sua veste ambra piena e luminosa, uno stupendo colore. L’olfatto è intenso e stratificato come si conviene a un vino di questa tipologia, apre le danze con note ossidative dolci come legni antichi, resine, miele di castagno per spaziare poi su uva passa, albicocche disidratate, composta di mele cotogne, fichi, agrumi canditi, cannella, pepe bianco, noce moscata, pan di spezie. Al palato rivela una materia dolcissima e densa, ricchissimo, appagante, dotato di eleganza e garbo, da metà bocca in poi esplode una scia fresca inaspettatta e sorprendente a ristabilire gli equilibri e renderlo armonico. Chiude in un’interminabile scia aromatica su toni fumè, di moka e salmastro.

Torchiato di Fregona 2017

Devo osservare che il colore e il comparto aromatico non si discostano dal 2016, praticamente identici. La differenza sostanziale è che il 2017 è dotato di ancora più  freschezza, sorprendente per un vino con un residuo zuccherino altissimo, risulta un vino bilanciatissimo e armonico. Due vini che mi hanno colpito per la loro energia e vigore, splendidi nella parte aromatica e appaganti sul palato, un tripudio di sensazioni e  una lunghezza infinita.

Boschera Colli Trevigiani IGT 2022

Vino proposto nella versione petillant come tradizione vuole, al naso regala toni di mela granny smith, kiwi, uva-spina, buccia di limone, fiori di acacia e biancospino. Sul palato è fresco, snello e teso, con acidità sostenuta ma armonico e saporito. Buona la persistenza.

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Coltivare https://passionegourmet.it/2024/03/13/coltivare/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=coltivare https://passionegourmet.it/2024/03/13/coltivare/#comments Wed, 13 Mar 2024 06:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=159516 La new wave della cucina langarola Luca Zecchin, 43 anni, dopo gli studi all’istituto alberghiero di Agliano Terme e qualche esperienza per farsi le ossa in giro per l’Italia, approdò a soli 20 anni nello storico ristorante da Guido che allora era nella sede storica di Costigliole d’Asti. Qui, sotto la guida della grande Lidia […]

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La new wave della cucina langarola

Luca Zecchin, 43 anni, dopo gli studi all’istituto alberghiero di Agliano Terme e qualche esperienza per farsi le ossa in giro per l’Italia, approdò a soli 20 anni nello storico ristorante da Guido che allora era nella sede storica di Costigliole d’Asti. Qui, sotto la guida della grande Lidia Alciati – colei che, è bene ricordarlo, ha “sacralizzato” gli agnolotti del plin serviti come da tradizione sul tovagliolo facendoli diventare l’oggetto di culto che sono oggi –  e dei figli Ugo in cucina, Andrea in sala e Piero ai vini, si è formato ed è cresciuto professionalmente. Nel 2002, quando Andrea Alciati trasferisce il ristorante da Costigliole all’interno de Relais San Maurizio, a Santo Stefano Belbo, ad affiancare Lidia c’è proprio lui, che prenderà le redini della cucina in prima persona nel 2008 quando la grande cuoca venne a mancare. Questi brevi cenni biografici sono necessari per capire quanto Luca Zecchin abbia respirato e praticato la grande cucina delle Langhe, così ricca di tradizioni e di prodotti assolutamente straordinari.

Oggi Zecchin guida la cucina di Coltivare, l’agri-relais fortemente voluto dalla famiglia Bagnasco, proprietaria dell’Agricola Brandini. Posto bellissimo, a La Morra, nel cuore della Langa del Barolo, la struttura, che dispone anche di cinque camere, ha una bella piscina all’aperto, un centro benessere e, appunto, il ristorante gourmet Coltivare.

Qui l’attaccamento al territorio e alla tradizione piemontese dello Chef è ben rappresentato da uno dei quattro percorsi di degustazione e misurata creatività chiamato proprio “Grande Piemonte“. Gli altri menù lasciano più spazio al puro estro di Zecchin e prevedono piatti di concezione più moderna, alcuni dei quali dedicati al pesce.  

Una cucina sapientemente tarata tra territorio e misurata creatività

Dalla cucina escono alti e bassi. Eccellente lo Spaghetto di Enkir con storione affumicato e caviale italiano rifinito al tavolo con una salsa al burro bianco e perfetti – e non poteva essere altrimenti – gli Agnolotti del Plin alle tre carni, molto buono anche il Germano servito con il petto al rosa, una salsa di Barolo Chinato e mirtillo rosso, accompagnato dalla parte più golosa: un Pithivier ripieno delle cosce arrosto, albicocche candite e fagioli fermentati e, accanto, dal filetto crudo del volatile; una preparazione classica che gioca in maniera convincente sui temi del dolce e dell’amaro. Ci aspettavamo, invece, qualcosa in più da un piatto iconico come il Girello di vitello tonnato che ci è sembrato in versione un po’ dimessa, mentre rivedibile il dessert, una rivisitazione del Montblanc, a nostro giudizio un filo stucchevole.

Si mangia in una sala con enormi vetrate rivolte sul giardino e sulle colline circostanti, in cui fa bella mostra la cucina a vista. Il servizio è premuroso ed efficiente, la carta dei vini, non amplissima, comprende, ovviamente i vini della proprietà. Nel complesso si tratta di una tappa consigliata per chi voglia fare un salto nella buona cucina piemontese (ma non solo) e godersi un territorio tra i più suggestivi e più importanti d’Italia.

IL PIATTO MIGLIORE: Spaghetto di Enkir: spaghetto di pasta fresca, storione affumicato e caviale italiano (salsa al burro bianco).

La Galleria Fotografica:

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Materia https://passionegourmet.it/2024/03/11/untitled-caranchini/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=untitled-caranchini https://passionegourmet.it/2024/03/11/untitled-caranchini/#respond Mon, 11 Mar 2024 06:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=159445 Untitled?! Ci eravamo lasciati, con l’ultima recensione sul percorso degustazione di Davide Caranchini, dicendo che “Il livello al quale lo Chef è ora arrivato è decisamente alto; il prossimo step potrebbe essere quello di sviluppare, citando il nostro amico Gianni Revello, oltre al palato sensoriale e mentale, in lui decisamente presenti, il palato concettuale. Questo, […]

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Untitled?!

Ci eravamo lasciati, con l’ultima recensione sul percorso degustazione di Davide Caranchini, dicendo che “Il livello al quale lo Chef è ora arrivato è decisamente alto; il prossimo step potrebbe essere quello di sviluppare, citando il nostro amico Gianni Revello, oltre al palato sensoriale e mentale, in lui decisamente presenti, il palato concettuale. Questo, al fine di avere un percorso pensato, concettualmente, dall’inizio alla fine, il che è prerogativa, al momento, di pochissimi in Italia, e forse al mondo. Questa potrebbe essere la nuova frontiera per lui.” Bene, siamo stati da Materia e abbiamo provato “Untitled” che è il ‘non titolo’ del menù stagionale autunno-inverno di Davide Caranchini, ed è anche il ‘non-titolo’ di una delle opere più famose di Jean-Michel Basquiat.

Citando lo Chef, si tratta “dell’esplorazione di un mondo di domande, senza la ricerca di risposte definitive“. Così come per le opere di Basquiat, l’interpretazione di Caranchini è assolutamente libera ma, oltre a quello, i due sono accomunati dalla potenza espressiva, dalla energia intrinseca e dalla chiara e fortissima identità. Negli anni un menù partito per celebrare la caccia si è evoluto e, dalla esplorazione degli abbinamenti acidi e amari degli agrumi, fino a un percorso di grande intensità di gusto, con uno studio approfondito su salse, estrazioni e grassi vegetali. Ed è, alla fine, un percorso dove abbiamo trovato anche l’auspicata dimensione concettuale del palato. Un menù senza soluzione di continuità, con tantissimi trait d’union e rimandi fra un piatto e l’altro che fanno di questa ‘opera’ quella indubbiamente più studiata e compiuta a oggi.

Il lato selvatico del Lago di Como

Untitled” è un percorso di 13 piatti dedicati al lato selvatico del Lago di Como, con la selvaggina indubbiamente presente, così come il bosco e il sottobosco locale, spaziando però fino al mare, per giocare con note iodate. Si inizia con uno strepitoso Brodo caldo e si viene disorientati poi, positivamente, con i Gamberi rosa dell’Adriatico crudi con una salsa di lepre in carpione, lasciata appositamente fredda per esaltare la parte fresca e acida rispetto a quella selvatica. Strepitoso per profondità, complessità e gestione dei vari registri è il Colombaccio arrosto, purea di mandorle, composta di radicchio e olive nere, radicchio marinato, pompelmo crudo e salsa al pepe selvatico del Madagascar (voatsiperifery). L’amaro è protagonista nella estrazione di verza ridotta e olio alla salvia che dovrebbe accompagnare delle gustose polpette di selvaggina, ma in realtà riduce a comprimaria la proteina animale.

Intensità e golosità estrema nel Risotto mantecato con burro affumicato, sciroppo di ninfa di betulla, salsa di olivello spinoso e shoyu di tartufo (preparazione fatta per recuperare gli scarti del tartufo dell’anno precedente, fermentando tartufo, koji e ceci tostati) dove lo shoyu spinge, e tanto, sia in questo piatto, sia nel dolce finale, dove viene utilizzato per la salsa al caramello della Creme Caramel. L’umami è super protagonista nella Zuppetta di funghi (trombette, finferli, porcini), cotti con una salsa fatta con gli scarti degli stessi funghi, conditi con olio all’erba cipollina e aceto di ciliegie; geniale l’accostamento con la purea di prugne fermentate, le ciliegie sott’aceto e le rondelle di scalogna fritto.

Il gioco dei contrasti agrumati raggiunge l’apice nella Piuma all’arancia / Arancia alla piuma dove, ancora una volta, si ribalta il paradigma della componente primaria (la proteina) rispetto alla secondaria (in questo caso l’agrume). Si parte quindi con un’aletta di fagiano fritta laccata con una glassa dolce-salata all’arancia e terminata con un mix di spezie all’arancia e timo; il piatto principale risulta però essere l’Arancia all’anatra, con l’agrume protagonista. L’arancia viene marinata con un mix in cui è presente un garum di germano, che rende profondità e gusto, cambiando anche la consistenza della buccia. Alla base del piatto una riduzione di germano e, sopra, le fette di arancia marinata, un fondo di selvaggina, qualche goccia di garum di germano, maggiorana e origano fresco e, per finire, qualche goccia di olio alla cannella. Un piatto che possiamo definire perfetto nel gioco di equilibri e di consistenze, colpendo per la sua grande potenza.

Untitled” è un percorso e una bellissima promenade palatale tra umami, acidità, balsamicità, aromaticità, amaro e dolcezza, e il bello è che lo si affronta tranquillamente, grazie a una leggerezza di fondo, grazie all’utilizzo di estratti, salse e grassi vegetali che riescono a rafforzare il gusto, non appesantendo il commensale. C’è sempre polifonia nei piatti di Caranchini, con l’unione di più elementi, ciascuno dei quali svolge un proprio, preciso, disegno melodico in totale armonia finale e, come abbiamo detto all’inizio, siamo davvero in presenza di un’opera magistrale, anche da un punto di vista concettuale, motivo per il quale ci sentiamo fiduciosi nell’affermare che, a breve, potremmo spingerci verso una votazione ancora più alta di quella attuale.

IL PIATTO MIGLIORE: Piuma all’arancia / Arancia alla piuma

La Galleria Fotografica:

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Il Gusto di XinGe https://passionegourmet.it/2024/03/08/xin-ge-liu-il-gusto-di-xinge/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=xin-ge-liu-il-gusto-di-xinge https://passionegourmet.it/2024/03/08/xin-ge-liu-il-gusto-di-xinge/#respond Fri, 08 Mar 2024 06:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=159591 Cronaca gastronomica, di una buona e nuova rinascita fiorentina Quello in cui ci si proietta, guardando la lunga e caleidoscopica sala rosso mattone caldo del ristorante Il Gusto di XinGe, sembra essere preludio del viaggio che la cuoca riserva per i suoi ospiti. In mandarino dim sum, significa toccare il cuore, andare in profondità. Xin […]

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Cronaca gastronomica, di una buona e nuova rinascita fiorentina

Quello in cui ci si proietta, guardando la lunga e caleidoscopica sala rosso mattone caldo del ristorante Il Gusto di XinGe, sembra essere preludio del viaggio che la cuoca riserva per i suoi ospiti. In mandarino dim sum, significa toccare il cuore, andare in profondità. Xin Ge Liu è una cultrice del buono ma anche del bello, e del ragionato. Saranno i suoi studi nel campo della moda, sarà che la città che la ospita, Firenze, è essenza a sua volta di una bellezza di tipo classico, qui va scena lo stil novo culinario di questa intraprendente donna. L’idea è lucida, brillante, proprio come il tavolo laccato su cui ci sediamo. In quella nuance di “blue China” (così chiamata nel gergo dei pantoni) che rimanda alla millenaria tradizione sino-ceramista dove i vasi sono decorati da minuziosi disegni bianchi e blu, appunto, ecco una tonalità vibrante ed elettrica, proprio come il crocevia gastronomico messo a punto da Xin Ge Liu appena fuori dalla matassa cittadina del centro di turisti e musei.

Combinare le verticali pungenze dal Sichuan con la fragrante leggerezza del Guangzhou, ricordando che il campo-base è quello dell’Italia, contribuisce a definire questa insegna come una delle realtà di felice avanguardia, tra le più divertenti non solo per Firenze ma per tutta la Penisola.

Bello il (buon) gusto di Xin Ge Liu

La condivisione sta alla base della cucina proposta da Xin Ge, che offre un percorso di scoperta frutto di incroci e suggestioni. Gli Sheng jian bao, ravioli rotondi arrostiti in padella, sono piccoli scrigni ripieni di sugosa carne di maiale e inedito riccio di mare: invitanti per carnosità e la sfumatura dolce ma persistente del mollusco. Sul segmento dei dim sum, tra accenni e rimandi alle origini di Xin Ge si arriva ai ravioli Petit Voyage, viaggio nella profondità terragna con l’impiego di champignon, tartufo e shitake. In questa pasta ripiena tipica della regione cantonese si affianca il contrappunto pungente della salsa alla senape di matrice francofona ma con innesto orientale. Di fatto, il latte di soia prende il posto della panna amplificando la dimensione ripiena del dim sum. C’è spazio per creare piatti anche da opere letterarie nella Cina di Xin Ge Liu, come nelle Polpette di scampi e mozzarella, servite su una scenografica composizione di foglie e rami. Il piatto si rifà al romanzo de “Il sogno della stanza rossa” di Cao Xueqin, dove i frutti sono succosi e preziosi litchi, simbolo di amicizia e famiglia nella cultura mandarina. Il piatto oltrepassa virtuoso già l’estetica, focalizzandosi sia sulla dimensione lattica della mozzarella sia quella della dolcezza suadente dello scampo. Nella lunga antologia culinaria cinese, un ruolo di prim’ordine lo assume il mondo dei volatili. Xin Ge Liu sa abilmente cimentarsi con l’arcaica preparazione del Pollo Shibari. Otto tipi di spezie e aromi infuse in brodo, portato ad altissima concentrazione in cui immergere il pollo in una articolata marinatura. Il prosieguo della cottura e la sua finitura restituiscono una consistenza unica, dove la vivida tenacità della carne si alterna alla succulenta masticazione schiudendosi ad ogni morso in tutto il suo variatale umamico. Legato secondo l’antica tradizione Quing della zona cinese di Chengdu, rigorosamente da liberare e consumare – riportandoci sempre ad atavico godimento – felicemente con le mani.

Il Gusto di XinGe è un’idea che, come scritto all’inizio, ha fatto della contaminazione il suo tratto, senza perdere di vista o deformarsi dal contesto che la ospita. Chissà se da qui possa essere scritta una pagina nuova di quello che per molto tempo veniva genericamente classificata come cucina fusion. D’altronde un certo Rinascimento partì, secoli fa, proprio da Firenze!

IL PIATTO MIGLIORE: “Dream of Red Chambers”: polpette fritte di scampi e mozzarella.

La Galleria Fotografica:

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Borgo Stajnbech https://passionegourmet.it/2024/03/06/borgo-stajnbech/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=borgo-stajnbech https://passionegourmet.it/2024/03/06/borgo-stajnbech/#respond Wed, 06 Mar 2024 14:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=158930 Lison Classico… ma non solo! La zona di produzione del Lison Classico DOCG è circoscritta a un limitato territorio nella provincia di Venezia. Un’area situata a breve distanza da Venezia e dalle spiagge di Caorle e Jesolo, che può godere di un clima temperato grazie alle leggere brezze provenienti dal vicino mar Adriatico. Il sito […]

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Lison Classico… ma non solo!

La zona di produzione del Lison Classico DOCG è circoscritta a un limitato territorio nella provincia di Venezia. Un’area situata a breve distanza da Venezia e dalle spiagge di Caorle e Jesolo, che può godere di un clima temperato grazie alle leggere brezze provenienti dal vicino mar Adriatico. Il sito di produzione è ubicato nella pianura veneta, a pochi chilometri dalla costa veneziana, e si estende attraverso le province di Pordenone, Treviso e Venezia. I confini orientali sono delineati dal fiume Tagliamento, mentre a ovest sono delimitati dal Livenza. Si tratta di una regione con radicate tradizioni vinicole, storicamente legata alla fornitura di vino per la Serenissima.

Il vitigno predominante in questo territorio è il Tai, conosciuto anche come Friulano o Vecchio tocai. Questa scelta sottolinea il profondo legame con la storia e le usanze locali. La produzione di alta qualità, quasi esclusivamente da uve di un solo vitigno, conferisce al Lison Docg Classico una forte identità e personalità distintiva. Alcuni fattori pedoclimatici favoriscono la diffusione del vitigno Tai, tra cui la presenza del caranto. Il caranto è un tipo di suolo di colore ocra scuro con striature bianche, composto principalmente da carbonato di calcio, che può essere trovato a profondità comprese tra i 30 e i 70 cm, con uno strato superficiale argilloso. Questa terra è estremamente dura e resistente, la stessa su cui sono piantati i pali che sostengono Venezia. In aggiunta, la concentrazione di elementi minerali come potassio, calcio e magnesio arricchisce il profilo aromatico delle uve, dando origine a vini pregiati, strutturati e longevi, con un finale tipicamente caratterizzato da note di mandorla amara.

Il clima mite è assicurato dalla prossimità del mare, dalla presenza di zone lagunari e dalla posizione pianeggiante che agevola l’esposizione dei vigneti ai venti locali, come la Maestrale, un vento fresco e secco, e lo Scirocco, un vento caldo e umido. La presenza di venti, prevalentemente serali, favorisce l’escursione termica tra notte e giorno, contribuendo alla produzione di numerosi precursori aromatici. Il termine “tai” è, in realtà, utilizzato in Veneto come equivalente regionale del vecchio Tocai friulano, successivamente ribattezzato semplicemente Friulano a seguito di una disputa con l’Ungheria. Nel 2008, la Corte di Giustizia Europea ha deciso che il termine “Tokaji” può essere utilizzato solo per indicare il vino proveniente dall’omonima regione ungherese e prodotto con uve Furmint, Hàrzevelu e Muscat lunelu. Il Friulano è coltivato da secoli nell’estremo nord-est d’Italia, ma le sue origini sono francesi. Esso corrisponde al vitigno bordolese Sauvignonasse, abbandonato a Bordeaux da secoli in favore del Sauvignon blanc e del Sémillon. Oltre al Friuli, viene coltivato nella zona confinante della Brda slovena e in Cile, dove spesso viene confuso con il Sauvignon blanc e vinificato insieme. È un vitigno dalla resa buona e costante, predilige esposizioni ben ventilate e climi freschi. Il vino si presenta con un colore giallo paglierino, con un bouquet caratterizzato da note floreali e di frutta bianca. Mostra una buona struttura, intensa persistenza aromatica ed equilibrata acidità. Il finale è distintamente ammandorlato.

Il vino Lison Classico DOCG ha ottenuto il riconoscimento della Denominazione d’Origine Controllata e Garantita nel 2011, sebbene già nel 1971 la denominazione Lison DOC tutelasse il Tocai di Lison. La zona di produzione include le frazioni di Lison, Pradipozzo e Summaga nel comune di Portogruaro; Belfiore, Blessaglia e Salvarolo nel comune di Pramaggiore; Carline e Loncon nel comune di Annone Veneto e parte del territorio dei comuni di S. Stino di Livenza e Cinto Caomaggiore in provincia di Venezia. Secondo il disciplinare, il vino Lison Classico Docg deve essere prodotto con almeno l’85% di Tai (friulano). Il consorzio di Tutela dei vini Lison Pramaggiore è stato istituito nel 1974 per preservare e valorizzare la produzione vitivinicola delle zone di Pordenone, Treviso e Venezia. La viticoltura nella regione ha origini nell’epoca romana e fu organizzata dai monaci benedettini nel X secolo. Con l’avvento della Repubblica Serenissima di Venezia, la viticoltura assunse importanza economica, sfruttando i canali commerciali e raggiungendo l’apice durante il periodo asburgico. Intorno al 1850, la coltivazione del vitigno Tocai friulano prese piede e la produzione di vini migliorò ulteriormente.

Borgo Stajnbech

Borgo Stajnbech è una giovane e dinamica azienda di 17 ettari vitati, con la produzione che arriva a circa 120.000 bottiglie annue su 20 etichette, che è sorta nel 1991 con i primi 4 ettari acquistati in un luogo nominato già nel ‘500 e mappato da Vincenzo Maria Coronelli nel 1696 come ”stagni bech” e rimappato nel 1815 dagli Austriaci ”stajnbech”, cioè “ruscello delle pietre”, per via del mulino (oggi museo etnografico) che dava il nome alla località di Belfiore sul fiume Loncon, già conosciuta come una zona ad alta vocazione vinicola. La zona si trova a 11 metri s.l.m. ma è come se fosse una valle, in quanto non ci sono colline vicino ma subito le montagne con il comprensorio del Piancavallo e del Cansiglio che salgono fino a 1.800 metri. Giuliano Valent, come si dice, è “nato in bottiglia”, dato che aveva iniziato giovanissimo a occuparsi di vitivinicoltura nell’azienda vinicola di suo padre, imparando fin da subito i segreti dell’arte del “far vin”, ma con una grande passione per la ricerca e una gran voglia di sperimentare. Quando ha aperto la cantina aveva già oltre 20 anni di vendemmie alle spalle con tutta l’esperienza necessaria per dar vita a questo progetto e quindi fa il winemaker e gestisce l’organizzazione generale della produzione. I coniugi Valent sono sempre ingaggiati insieme con passione e competenza a utilizzare i metodi di coltura più razionali, come gli impianti a levata densità di ceppi per ettaro e le potature molto castigate, rispettando l’ambiente con sistemi eco-compatibili.

Il loro vecchio ”Rustico” è l’emblema, il testimone e il custode dei valori di genuinità e trasparenza proprie della cultura contadina ereditata dai padri e che sono orgogliosi di tramandare alle nuove generazioni. I vini provengono da vitigni bianchi come tocai (oggi lison, per il vino bandiera ”150” Lison Classico DOCG) pinot grigio, sauvignon, chardonnay, verduzzo e da vitigni rossi come malbech, merlot, cabernet franc, cabernet sauvignon, refosco dal peduncolo rosso per una capacità produttiva di 130.000 bottiglie l’anno.  Sono vini puliti, sinceri, che hanno personalità, ma soprattutto un grande equilibrio e tipicità, il varietale è messo in risalto in ogni etichetta In linea generale i vini mi sono piaciuti molto, tutti ampiamente sopra i  90 punti, riconoscibili nel vitigno, fragranti, fini, dalla beva snella, precisa. La tipologia di vini che si abbinano benissimo a piatti di cuochi di nuova generazione dove è messa in risalto la materia prima.

La degustazione

Lison Classico DOCG 150 2021 Borgo Stajnbech

Nome dato in occasione dei 150 anni della Repubblica Italiana, provenienti da vigne di oltre 40 anni di età. 100% Tocai Friulano. Acciaio.  Pigiatura soffice con criomacerazione per otto ore in pressa, decantazione a freddo e vinificazione in bianco con temperature controllate. Decantazione a freddo. 8 mesi sui suoi lieviti con frequenti battonage; con una piccola percentuale di legno. Il naso è sciolto e ampio, decisamente fruttato e floreale con intriganti note di mandorla amara, mela golden, pera, tocco minerale quasi affumicato, fiori gialli. Il sorso è fresco, gustoso, materico e avvolgente, caratterizzato da una perfetta e lunghissima corrispondenza naso-bocca. Ottima la persistenza dove si apprezza la tipica nota amarognola.

Stajnbech Bianco Trevenezie Chardonnay IGT 2021 Borgo Stajnbech

Ricco nella parte olfattiva con note calde di frutta tropicale, mela matura, pesca gialla. Assaggio dinamico, l’avvolgente morbidezza e la generosa sapidità accompagnano la lunga chiusura con rimandi fruttati.

Trevenezie IGT Bianco “L’Enologa” 2022 Borgo Stajnbech

Deriva da un blend di uve autoctone e internazionali che da sempre hanno caratterizzato il territorio: Tocai Friulano e Chardonnay. Nel profumo intenso prevale la ricchezza dei richiami del frutto, da subito esotico, ananas, melone, con mandorla amara e un fruttato di glicine a chiudere. Sorso compatto e generoso, equilibrato e persistente. Mantiene eleganza e freschezza.

Bosco della Donna Sauvignon Trevenezie IGT Borgo Stajnbech

Al naso porge complessità e maturità  con cenni fruttati tipici di uva spina, lampone bianco, litchies, kiwi, mela verde, tocco vegetale di salvia, fiori di biancospino e mughetto. In bocca rivela un sorso agile e snello, succoso e di ottimo equilibrio. Buona la freschezza e sapidità che lo rendono adatto a molteplici abbinamenti gastronomici

Merlot Trevenezie IGT 2021 Borgo Stajnbech

Decisamente complesso, sprigiona energiche suggestioni tipiche e varietali, piccoli frutti neri, mirtillo, prugna, note di tabacco dolce, moka, affumicato. Sorso espressivo, ritmato dal fine intreccio di materia, calore alcolico, freschezza, tannini molto fini. Armonico e pronto da bere, si fa apprezzare per la sua persistenza.

Stajnbech Rosso Trevenezie IGT Refosco e Cabernet Sauvignon 2020 Borgo Stajnbech

Olfatto caldo e denso dai profumi articolati che iniziano con prugna, mora, ciliegia nera e concludono con sentori di tabacco da pipa, sottobosco, note mentolate, spezie dolci. Esordio sul palato deciso e materico, ravvivato dal dinamico rapporto fra tannino ben estratto e calore avvolgente, non manca la freschezza vero riferimento dello sviluppo gustativo. Armonico nelle sue componenti, buona

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Rear https://passionegourmet.it/2024/03/06/rear/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=rear https://passionegourmet.it/2024/03/06/rear/#respond Wed, 06 Mar 2024 06:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=159330 La cucina versatile del giovane Iazzetta Rear è un’interessante tappa gourmet alle porte di Nola, cittadina commerciale poco distante dal capoluogo campano, che si distingue per la buona e varia offerta gastronomica oltre che per aver dato i natali a Giordano Bruno. Ci troviamo all’interno del polo del gusto RO World che ospita, oltre al […]

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La cucina versatile del giovane Iazzetta

Rear è un’interessante tappa gourmet alle porte di Nola, cittadina commerciale poco distante dal capoluogo campano, che si distingue per la buona e varia offerta gastronomica oltre che per aver dato i natali a Giordano Bruno. Ci troviamo all’interno del polo del gusto RO World che ospita, oltre al ristorante, anche una caffetteria con annessa pasticceria e un originale ristorante giapponese di cui si è già raccontato. I fornelli del Rear sono da pochi mesi nelle mani di Salvatore Iazzetta, classe ’93, formatosi alla corte di Iannotti in quel di Krèsios e subentrato a Francesco Franzese, di cui era il braccio destro.

La sua è una cucina solida e diretta, eseguita con un’ottima tecnica: le sue creazioni prendono spunto dai tradizionali sapori campani che sono spesso accostati a materie prime pregiate, il tutto con un occhio attento alla leggerezza e alla godibilità del piatto nel complesso.

Materie prime pregiate e sapori veraci

Alcuni esempi sono la Tortiera di alici (crude) dalle nuance delicate e la Pasta militare al king Crab, ovvero dei tubettoni cotti a regola d’arte nel fondo del crostaceo con una salsa di ostriche e Champagne ad apportare freschezza e acidità. Un piccolo capolavoro è il Carciofo reinterpretato da Iazzetta, sempre più ingrediente feticcio dell’alta cucina, in questa versione cotto al vapore e servito con una leggera affumicatura per ricordare le braci su cui tradizionalmente viene cucinato; di fianco una piccola e saporitissima polpettina di maiale. Sulla brace, quella vera, è invece cotto il Filetto di cervo con funghi e zucca in una versione classica e succulenta. Ma da Rear esiste anche una selezione di street food rivisti ovviamente in chiave gourmet su cui spicca un Lobster roll davvero goloso. La carta offre anche la possibilità di scegliere molluschi e crostacei al naturale oppure da cucinare in maniera classica alla brace o con la pasta. Si chiude con un etereo Sufflè di castagna eseguito alla perfezione.

Il locale è moderno spazioso e arredato con classe, il servizio puntuale e disponibile oltre che prodigo di attenzioni. La carta dei vini è vasta e ben assortita, anche con referenze estere, oltre a vantare anche un’interessante carta delle acque minerali. Rear è un locale che si discosta per certi versi dalla classica meta gourmet, e per questo riesce ad accontentare una clientela variegata, mantenendo uno standard elevato in tutti i piatti e assicurando quella sensazione di “star bene a tavola” che coinvolge tutti i sensi.

IL PIATTO MIGLIORE: Carciofo cotto a vapore profumato alla menta, crema di topinambur arrosto e polpettina di maiale.

La Galleria Fotografica:

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Contrada Bricconi https://passionegourmet.it/2024/03/04/contrada-bricconi-michele-lazzarini-giacomo-perletto/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=contrada-bricconi-michele-lazzarini-giacomo-perletto https://passionegourmet.it/2024/03/04/contrada-bricconi-michele-lazzarini-giacomo-perletto/#respond Mon, 04 Mar 2024 06:03:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=159592 Una grande tavola per la rinascita di un ciclo produttivo Il lavoro agricolo quotidiano inteso come viatico per un lascito culturale futuro. Quando la fatica di artigiani, allevatori, contadini e vignaioli locali si trasforma in corale bellezza grazie alla cucina, il valore di un territorio raggiunge il suo apice. Contrada Bricconi è un agriturismo che […]

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Una grande tavola per la rinascita di un ciclo produttivo

Il lavoro agricolo quotidiano inteso come viatico per un lascito culturale futuro. Quando la fatica di artigiani, allevatori, contadini e vignaioli locali si trasforma in corale bellezza grazie alla cucina, il valore di un territorio raggiunge il suo apice. Contrada Bricconi è un agriturismo che revitalizza l’importante ciclo produttivo di queste valli, portando anche conoscenze e idee da terre remote, permettendo di viaggiare attraverso ingredienti vegetali radicati in questi terreni ma provenienti da luoghi lontani. Parliamo di un progetto partorito dalla mente di qualcuno che ha una grande sensibilità di immaginazione: perché immaginare un luogo come questo a partire da ruderi abbandonati – Contrada Bricconi è la riqualificazione di un borgo contadino del XV secolo – e proiettarlo verso un immaginario che travalica la valle limitrofe, è appannaggio di sognatori che visualizzano un obiettivo e lo raggiungono con determinazione. Giacomo Perletti è uno di questi: convinto che la cucina possa rappresentare la via più preziosa e appassionante per perseguire questo obiettivo, si è reso artefice di un eroica attività che ha trovato esatta sublimazione con l’innesto di uno dei più promettenti, preparati ed entusiasti cuochi del futuro, quel Michele Lazzarini che, senza dubbio, sarebbe in grado di fare la differenza in qualunque cucina.

I sapori di Michele Lazzarini: dal mondo alle Alpi Orobie

Le sue proposte sono contrassegnate da centralità e immediatezza gustative, ma sono complesse nel loro concepimento: grassi da latte e derivati, note affumicate, acidità riequilibranti e sfumature erbacee giocano un ruolo chiave in un percorso avvincente che non vede mai cali di ritmo, racchiudendo in sapori tutt’altro che tradizionali – ci sono rimandi al Sudamerica e all’Asia – il meglio delle Alpi Orobie. Dalla scenografica partenza nell’affumicatoio dove viene servito il primo boccone del percorso, un piccolo Cubo di carne bovina (razza Grigio Alpina) cucinato utilizzando utensili medievali con la colata di lardo che fuoriesce dal già iconico flambadou che gli accaniti gourmet avranno già intravisto in ristoranti specializzati in cotture a fuoco vivo, come lo svedese Ekstedt – accompagnato da un corroborante brodo di mele selvatiche, al primo assaggio in tavola: l’Uovo con coniglio marinato e affumicato che, amalgamato allo zabaione salato montato con il sugo di arrosto del coniglio, ricorda una carbonara dagli interessanti risvolti aciduli. La Trota – allevata a Gandellino, a soli sette chilometri dal ristorante – cotta sulla pelle alla brace con acqua di pomodori fermentati e olio all’abete è uno dei piatti più rappresentativi dello Chef, oltre ad avere una storia – etica – a supporto che narra di come un vecchio allevamento di un anziano signore, quasi in disuso, si sia rinvigorito grazie all’entusiasmo di questi giovani. Ma il podio dei piatti dal più alto tasso di godimento se lo contendono i Bottoni farciti di Genussbunker, formaggio di montagna stagionato 12 mesi e kefir, olio al levistico e ruta, semplicemente un compendio  di freschezza e golosità e i Rognoncini di coniglio, funghi e kimchi, nel quale l’essenza del fungo – sia per la salsa di funghi fermentati sia per la schiuma – viene esaltata in acidità e diventa piacevolissima con il tocco piccante del kimchi.

Il servizio di sala, che vede tra le principali figure Davide Cazzani e lo stesso Perletti, è in grado di coinvolgere il commensale raccontando con enfasi la genesi dei piatti e l’origine degli ingredienti utilizzati. Interessante il capitolo bevande, per cui conviene farsi guidare in un percorso mirato: si va dal sidro bergamasco vinificato in metodo classico alla kombucha shiso (piantato nell’adiacente orticello) e rose a un’affascinante Malvasia di Candia, per finire con succo di mela mirtillo e finocchietto. Il vero grande limite resta l’offerta della carta vini: l’imposizione sovranista della regione Lombardia impone importanti limiti, oltre che sulla provenienza dei cibi, anche sui vini. Ciononostante, c’è un grande avvenire all’orizzonte di questo piccolo borgo montanaro risorto.

IL PIATTO MIGLIORE: Bottoni, levistico e ruta.

La Galleria Fotografica:

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Adelaide https://passionegourmet.it/2024/03/01/adelaide/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=adelaide https://passionegourmet.it/2024/03/01/adelaide/#comments Fri, 01 Mar 2024 06:00:00 +0000 https://passionegourmet.it/?p=158023 Un bell’esempio di fine dining nell’hotellerie di alto profilo Roma sta cercando di riconquistare il proprio opulento appeal culinario anche grazie a rilanci di fine dining inseriti in hôtellerie di livello. A due passi da via del Corso, l’Adelaide Restaurant s’inserisce nella visione del concept di ospitalità su misura dell’Hotel Vilòn, rappresentandone il perfetto archetipo. […]

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Un bell’esempio di fine dining nell’hotellerie di alto profilo

Roma sta cercando di riconquistare il proprio opulento appeal culinario anche grazie a rilanci di fine dining inseriti in hôtellerie di livello. A due passi da via del Corso, l’Adelaide Restaurant s’inserisce nella visione del concept di ospitalità su misura dell’Hotel Vilòn, rappresentandone il perfetto archetipo. Il nome dell’insegna è un tributo alla Principessa Adelaide Borghese de la Roche Foucauld, moglie del Principe Scipione.

La sala ristorante è un concentrato di charme e caratterizzata da stile vagamente bohémienne fatto di colori orientaleggianti protesi anche in un jardin d’hiver che può ospitare un’altra manciata di coperti. L’atmosfera accogliente, a tratti familiare, è solo l’antifona della cucina la cui cabina di regia è affidata a Gabriele Muro. Chef procidano forgiatosi con articolate esperienze in Italia e all’estero, capace di assicurare bella profondità ai piatti, originali e tecnicamente di livello, in cui il pesce diviene protagonista quasi assoluto, proposto con una visione leggera, gustosa e colorata, cromaticamente bella da vedersi e buona da gustarsi. Una firma identitaria, quasi fusion-campana.

Il triangolo Roma – Procida – Giappone

Un mix tra classico e contemporaneo animato da verve mediterranea è la chiave identitaria dei piatti, in cui si palesano sapori centrati, frutto anche di un’attenta scelta degli ingredienti stagionali, pescato del giorno incluso. Utilizzato per il piacevole fuori menù, una fresca Tartare di spigola servita con riduzione di carote, o per farcire il gustoso sandwich Il Vizietto, cavallo di battaglia dello Chef e della sua isola. Ben strutturata anche la componente vegetale, cui viene riservato apposito menù e più da vicino apprezzato nel Carciofo si fa in tre, rielaborazione creativa in relative consistenze, ad omaggiare che omaggia la Capitale: in crema, cialda fritta e arrosto.

Tornando idealmente a Procida, si dilatano le percezioni gustative in “Pasta e patate” con crudo e cotto di pesce, arricchita con bisque di crostacei e polvere di pesci. L’esemplificazione di testa e mano intente a pensare e realizzare portate dai sapori penetranti. Un piatto di pancia insomma. Sensazione ripetuta con acume nella Linguina di Gragnano con delicato carpaccio di scorfano, servita in crema di friggitelli (rossi), briciole di tarallo e bottarga. Un ideale incontro tra il pescatore e l’ortolano. Non solo coreografico ma anche ben scandito nella varietà dei passaggi l’Oyashio, nome che rievoca una fredda corrente oceanica che passa vicino al Giappone. Protagonista del piatto un rombo marinato al miso, accompagnato da una maionese allo zenzero, pak-choi, salsa di soia, riduzione del pesce stesso e cipolle rosse in agrodolce. Di livello anche i dessert. L’Oro di Procida, rifinito a tavola con azoto liquido, presenta all’interno una mousse e composta di limone, mentre all’esterno cioccolato bianco e buccia semi candita. Concettualmente più goloso il Cremoso al pistacchio salato, chantilly, mascarpone, lime e coulis ai frutti di bosco, per nulla spinto sulla parte zuccherina.

L’attenta quanto informale sala, con la sua proposta enoica, di bella profondità sugli Champagne, si coniuga alla precisione stilistica e alla concretezza dei piatti, serviti in ambienti quasi ovattati, da respirare, gustare e godere appieno, prima di rituffarsi nella frenesia delle vie centrali della città eterna.    

IL PIATTO MIGLIORE: Linguine, carpaccio di scorfano e friggitelli.

La Galleria Fotografica:

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