“La giovane calabrese è la prima regina mai incoronata dalla Guida Michelin, che da quest’anno sceglie di dedicare alle donne una maggiore attenzione.”
E’ Caterina Ceraudo del ristorante Dattilo di Strongoli (in provincia di Crotone) a essere stata scelta come vincitrice per la prima edizione del premio assegnato dalla Guida Michelin Italia alla “Miglior Chef Donna”.
29 anni, nel suo passato una laurea in enologia e poi un cambio di percorso benedetto da un fondamentale passaggio formativo nella scuola e nella cucina di Niko Romito.
Raggiunta al telefono, Caterina dedica poche parole alla gioia personale, preferendo sottolineare la soddisfazione per la nascita di nuovi riconoscimenti che diano luce al lavoro delle donne.
“Non trovo che premi simili siano una forma di discriminazione, come sostengono alcuni”, dice la giovane cuoca calabrese, “ma penso piuttosto che siano importanti per dare risalto alla figura della donna-professionista”.
Inutile nascondere che per quanto si stia facendo molto, la percezione dell’immagine femminile in alcuni ambienti professionali debba ancora riscuotere il risalto che merita.
“Spero che un giorno spunti come questo tipo non siano più necessari, ma oggi penso invece siano utili per affermare che il nostro ruolo nella società è cambiato e sta ancora cambiando”.
A margine, chi vi scrive trova personalmente corretto sottolineare come lo sponsor del premio sia Veuve Cliquot, che unisce questa iniziativa in “rosa” a quelle già avviate: da una parte il premio alla miglior chef donna della Guida de L’Espresso, dall’altra l’istituzione dell’Atelier des Grandes Dames, un network ideato l’anno scorso al fine di sostenere i talenti femminili dell’alta ristorazione. Alle quattro socie fondatrici (Aurora Mazzuchelli, Fabrizia Meroi, Marianna Vitale e Isa Mazzocchi), si sono già aggiunti 9 nuovi volti, e qualcosa di più articolato sembra sul punto di nascere.
Dato per scontato che un marchio ha il diritto e lo scopo di comunicarsi, ben vengano i progetti radicati che cercano di sostenere una categoria, invece di limitarsi a scattare qualche foto di rito e poi dimenticarsi dei premiati.
Ancora complimenti a Caterina Ceraudo, la prima regina mai incoronata da Michelin.
“Virtuosismo fiammingo. L’evoluzione in divenire di In De Wulf e l’armonia culinaria di Kobe Desramaults”
“L’albero genealogico” degli chef di solito non mente.
Avere l’argento vivo addosso è un attributo importante, ma è quella rara capacità di assorbire, di cogliere il meglio dai propri maestri e ispiratori, padri professionalmente putativi, per poi integrarlo con le proprie potenzialità a rendere meglio la misura del reale valore di uno chef.
Kobe Desramaults di potenzialità abbonda senz’altro.
Allo stesso modo, senza dubbio, l’apprendistato da Sergio Herman, a sua volta passato per le cucine di Gagnaire e l’imprinting al Commerç 24 di Barcellona di Carles Abellan, già scuola Adrià, hanno arricchito il suo bagaglio in modo da renderlo completo.
La grande cucina francese, via via affinata in una sua versione sempre più moderna, sposata alle tecniche messe a punto a cala Montjoi e innestate sul talentuoso patrimonio di un grande cuoco fiammingo.
Questo potrebbe essere il sunto da cui è nata l’esperienza di In De Wulf, affascinante ristorante che si trova in quel di Dranouter , frazione di Heuvelland, Fiandre occidentali, a un tiro di schioppo dal confine francese.
Anzi, che si trovava a Dranouter.
Già, perché lo chef l’11 dicembre scorso, considerando conclusa questa fase della sua carriera, ha effettuato il suo ultimo servizio, e riaprirà a giugno a Gent.
In un posto più piccolo dove la cucina sarà, a sentire lui, “even better”, persino meglio, cosa che non fatichiamo a credere visto l’entusiasmo, la vitalità, l’inventiva che abbiamo riscontrato nelle sue parole e in tutto lo staff che sono apparsi, a pochi giorni dalla chiusura, quelli di un ristorante all’inizio del proprio percorso e non in prossimità del proprio termine.
Le esperienze maturate in passato sono felicemente confluite in una matrice gastronomica territoriale, fortemente sentita dallo chef, in cui i prodotti locali apportano quel substrato fondamentale su cui l’irresistibile mix di tradizione e modernità fornisce quel quid che ha reso questa tavola un appuntamento imperdibile.
La struttura è praticamente autosufficiente in tutto quello che propone nel suo menù degustazione che, scorrevole e fluido, si sviluppa in una serie di numerosi assaggi perfettamente calibrati.
La frollatura delle carni, per lo più lunga, ingredienti fermentati, la produzione di bibite a base di frutta ed erbe per accompagnare il pasto, un pane davvero eccellente e una gustosissima pizza sono solo alcune delle peculiarità di un ristorante che è una vera e propria piccola farm.
Il tutto si risolve in una cucina semplice, solo apparentemente, fatta di pochi elementi, complessa ma non complicata, accessibile a tutti, dove la centralità del gusto è l’assoluto trait d’union di tutte le pietanze presentate.
Una cucina fatta di un’armonia tutta personale, che nasce dalla composizione di sapori e non da attriti di sorta.
Piatti come la gallinella appena scottata, accompagnata da una formidabile gelatina fatta con le sue lische, o la magnifica lepre rosolata sul carbone, con inebrianti sentori di ginepro, o ancora l’ostrica cotta nel burro (la cui nota iodata sposa divinamente la minerale ferrosità degli spinaci e la rotonda morbidezza di un olio al porro di sfacciata golosità) raccontano tanto e con il giusto tono.
Ci si trova al cospetto di un grande chef che, in procinto di affrontare l’ennesima tappa di un cammino finora luminoso, ci lascia con l’impaziente desiderio di riassaggiare la sua cucina.
Mise en place.
Brodo di cozze, birra e panna acida.
Classica tartina di patate, emulsione di cozze e… cozze.
Vichyssoise, mela e polvere di porro ed erba cipollina.
Crema di scalogno, senape al miele, panna acida, fiori di colza.
Lumache di Comines fritte, polvere di senape ed erbe.
Pane, eccellente, con burro rigorosamente fatto in casa…
…e ciccioli
Tartare di scampi cotto al vapore avvolta nel nasturzio, rapa fermentata, foglia di senape.
Ostrica cotta nel burro di siero di latte, spinaci, olio al porro.
Gallinella scottata sulla pelle e cruda, formidabile gelatina a base di lische, scorzonera con polvere di cozze.
“Kerremelkstampers”, piatto tradizionale belga a base di patate, panna e formaggio nobilitato dal caviale di Anversa.
Zucca arrostita, sugo di maiale al vin jeaune, panna acida, alloro.
Cavolo rapa, salsa al prezzemolo, lardo, germogli.
“Stoemp”, altro piatto tradizionale belga a base di purea di patate e verdure. In questa versione di Kobe Desramaults sull’insalata di cavolo e acetosa con rosso d’uovo alla base e una tuile di burro…
.si aggiunge la patata cotta al forno in crosta di pane.
Lepre, squisita, cotta al carbone con sale al ginepro, nella foglia di cavolo una tartare della sua coscia con uva spina.
Testa di maiale, alga kombu, cavoletti di Bruxelles, coriandolo, brodo di funghi.
Dal forno oltre al pane ecco anche un’ottima pizza, anzi flamiche, con rafano, scalogno, cipolle e Maroilles.
Gelato di latticello, carote croccanti e caramello all’olivello spinoso.
Tortino di mele.
Pera caramellata, sorbetto al finocchio, mousse di pera e yogurt.
Speculoos con gelatina e crema di barbabietola.
Smoutebollen. Palline di allegria fritte nello strutto.
Torta al malto.
Il compagno di viaggio scelto da una carta dei vini piena di chicche.
La reception.
Particolare.
In De Wulf.