Abbiamo speso fiumi di parole su Le Calandre, ma soprattutto su Massimiliano e Raffaele Alajmo. Una grande famiglia della ristorazione italiana di qualità, non dimenticando i due genitori senza cui nulla sarebbe stato. Talento sì, ma anche abile e pragmatica capacità imprenditoriale. Che gli ha consentito di entrare a pieno titolo nella cerchia ristretta dei protagonisti della nostra cucina, la cucina italiana, nel mondo.
Oggi però vorremmo cercare di dare un punto di vista, forse più tecnico-analitico, che questa realtà merita. Perché questa cucina è un’ottima cucina, personale, pensata e cerebrale, ma al contempo molto diretta e limpidamente golosa, perchè questo cuoco è un cuoco di grande profondità e pensiero e ultimo -ma non per importanza- perché continuiamo a considerare Massimiliano Alajmo uno dei più personali, vividi e limpidi talenti italiani.
Il suo percorso, che seguiamo ormai da molti anni, ci sembra sia giunto quasi al suo culmine, intraprendendo la tortuosa strada che porta verso la Maestria. Quella profonda, viscerale, che emerge da una quasi sacralità del gesto e della sua ripetizione, dalla profonda religiosità di pensiero che sottende tutti i gesti e i movimenti di ogni giorno, anche i più semplici.
Ed ecco quindi tratteggiare questo percorso negli anni, fino a giungere a una cucina a cui si può muovere qualsiasi rilievo, ma non il difetto di personalità. Una cucina profondamente riconoscibile, come quella di nessun’altro, profondamente e radicalmente sua.
Il percorso, dicevamo, cominciato molti anni or sono attraversando il manierismo delle forme, degli impiatti precisi, dei pochi ingredienti, delle millimentrie e delle fitte ma precise trame elementari. Cammin facendo questa cucina, attraversando anche periodi di caos apparente e alquanto evidente, si è spostata su un piano molto più materico, vivo e carnale.
E’ oggi compiuta perchè divenuta complessa, ma si badi bene affatto complicata. Complessa nelle tessiture, nel numero di ingredienti che concorrono alla formazione del piatto. Ricca, opulenta, a tratti finanche apparentemente ridondante. Parallelamente sviluppando un caos, è il caso di dirlo, negli impiatti. Sempre più diretti, vivi, pulsanti e sempre meno manieristi e apparentemente precisi.
L’esempio per noi fulminante è stato (ma ne citeremo molti altri nelle didascalie delle foto) il riso giallo con gremolata di anguilla. Un riso mantecato al latte di mandorla e zafferano -connubio portentoso- arricchito da una gremolata all’anguilla affumicata, impreziosito dal tocco del sugo e gelato alla barbabietola. Sapori, consistenze e temperature che diventano un inno alla goduria più estrema.
Abbiamo usato il termine “apparentemente”, ce ne rendiamo conto, parecchie volte. Ma non è un errore. O meglio non è l’errore che pensate a prima vista. E’ come un piatto di Massimiliano, che può apparire difettante, con errori di impiatto, di eleganza, di sovrastrutture gustative.
Ma questo solo ad un occhio poco attento e superficiale. Perché in profondità, in quella più nascosta, questo tripudio di ingredienti e questa apparente confusione genera una linearità ed una pulizia di gusto, una golosità ed una sazietà per tutti i sensi davvero tremendamente straordinaria. E’ il primo ribaltamento di un dogma, il manierismo che lascia il passo al vero senso di un piatto, il gusto. Che ci fa pensare inoltre -altro dogma ribaltato- come questa cucina sia l’ideale rappresentante della nuova rivoluzione dell’Haute Cuisine, quella costruita attorno alla degustazione di qualche piatto a tavola, contro lo strapotere dei menù degustazione di interminabile lunghezza.
E proprio a dimostrare che questa profondità di pensiero è nascosta, ma neanche troppo, nella filosofia di questo luogo ecco comparire una gerarchica sovversione del menù a favore di una proposta trasversale di 3, 4 o 5 piatti molto interessante e accattivante, ben più del menù stesso di cui ne segna il netto e preciso superamento.
Geniale qui, come geniale questa cucina per addizione che, non dubitiamo, vi sorprenderà per la sua profondità.
Lo stupendo pane in accompagnamento: nulla qui è lasciato al caso.
Fu Mare, primo colpo ben assestato: gelatina di brodo di sgombro, gelato alla ventresca di tonno, caviale, bottarga di muggine.
Nudo e crudo di carne e di pesce. Tonno nappato alla barbabietola, caviale e maionese di alghe, scampi panati e finti fritti con carciofi e salsa pistacchio, spaghetti di soia e funghi, brodo di funghi, dentice, calamaro e bottarga, carne cruda salsa curry radicchio e scampi crudi.
Fagioli e banana. Fagioli di lamon, granita di dragoncello, spuma di acqua di cottura dei fagioli, crema di fagioli, banana, radicchio e sedano (due aceti, uno balsamico di fondo e peperoncino). Nulla qui è pleonastico, tutto ha una funzione precisa e utile per il completamento di un piatto molto ma molto interessante. Fagioli e banana hanno connotati aromatici e texturiali sorprendentemente simili, che giocano a rincorrersi, sapientemente calibrati e dosati tra loro. Un piatto che, con questi ingredienti, in mano ad altri sarebbe stato un disastro annunciato.
Cappuccetto rosa. Crema di patate alla barbabietola, caviale, chips di riso, anguilla, ostrica. Un inno al cappuccino di seppia, qui migliorato e addirittura superato.
Spaghetti con latte di razza e canocchie. Oliva nera, ricci di mare, pane tostato, canocchie crude, con una punta di dragoncello e prezzemolo fondamentale.
La scarpetta.
Gnocchi di patate e topinambur con spremuta di pastinaca e tartufo bianco.
Riso giallo con gremolata di anguilla.
Pasta al forno con lepre, salsa di zucca e tartufo bianco.
Rombo con finta maionese di pastinaca e carciofi fritti.
Castrato abruzzese al limone con purè di liquirizia.
L’ottimo pre-dessert.
Sorbetto di melograno, hibiscus e rosa.
Bufala di mandorle, capperi, olive, olio.
Mont Blanc.
Il vino che ha accompagnato la cena: Moet & Chandon Grand Vintage 2008