Si dovrà andare in provincia di Avellino, per di più in una azienda vinicola di grande rilevanza, per assaggiare la cucina di uno dei cuochi più preparati e colti di tutta la regione.
In località Cerza Grossa infatti, Feudi San Gregorio cela, con le geometrie di vetro e acciaio poggiate sui declivi arredati di viti, la sua articolata produzione di vini autoctoni ma anche la cucina di Marennà, il ristorante gourmet in affido a Paolo Barrale. Siciliano di Palermo, gioventù sul quel colle di Roma da Heinz Beck ed infine irpino di adozione, all’interno di questa azienda sempre molto attenta al marketing e alla comunicazione e con quell’idea della grande famiglia allargata ai collaboratori e ai dipendenti tutti.
Il percorso che si consiglia di intraprendere ad uno di questi tavoli è fuori di dubbio quello a mano libera, dove agilmente si rincorrono memorie e profumi della vita in viaggio dello chef, una sorta di fusion dove affiorano di volta in volta piatti di cucina francese o comunque classica, intramezzati con le suggestioni della terra irpina e della costa campana e contrappuntati poi dalle schegge della grande anima araba dei siciliani. Un modo per non affaticare mai il palato, divertirsi ad una tavola ricca di profumi, cercando più rotondità che spigoli, più accordi che contrasti.
Così il cammino che si apre con il fioretto dei due piatti di mare giocosi, lavorati senza fiamma e dai profumi intensi della pesca e del cocco, comincia a intensificarsi con la sciabola della salinità della guancia prima salmistrata e successivamente cotta nel brodo, per poi culminare nella terrina di foie gras, di ottima fattura, accompagnata da un pan brioche caldo in cui si riconosce la terra natia dello chef.
Analogamente nei primi piatti si palesano le anime plurime che ispirano questa cucina. Un risotto di mestiere, dove il finocchio contiene gli eccessi delle alici, un raviolo più casalingo, semplice ed accattivante e quei piccoli cannelloni dove finalmente leggere il territorio irpino nelle sue tipiche espressioni di carni e formaggi. I due secondi riprendono la giostra con una spigola, prima al cucchiaio in versione cruda e vegetale, poi al trancio nel piatto, in oliocottura, speziato dal cous cous e magnificamente amplificato da una bisque di crostacei ed infine con un piccione, non memorabile ma di corretta esecuzione, sezionato sulla lavagna divenuta piatto.
Sui dessert mano felice, come ci si aspetta da un siciliano, con sorprendenti azzardi di sconfinamenti salati, prima con una delizia al limone a strati sovrapposti, dove si infiltrano i cristalli Maldon e poi con un cannolo sottilissimo e croccante, dove mascarpone e gelato sono solo sponde grasse ad un raffinato crunch di scarola ed alle erbe amaricate dal liquore benedettino.
Le ultime note sono per un servizio competente e preciso, un conto più che onesto, una carta dei vini ormai non più confinata nelle etichette aziendali e un maître, Angelo Nudo, che non smette di migliorarsi mai.
Il volume della struttura. Imponente ma non impattante.
La terrazza della sala affacciata sulle valli.
L’orto, dispensa naturale dello chef.
Meringa soffice di Aperol e burro di arachidi. L’aperitivo dello chef.
Il pane. Notevolissimo, per varietà e qualità.
Gazpacho. Crudo di scampi, brunoise di pesca, pomodoro e caviale di peperone verde. Inizio leggero e di grande freschezza, a suggerire un percorso di lento e progressivo corpo.
Caprese di capasanta… in Perù. Omaggio alla cucina andina, con la ceviche di capasanta al lime, pomodoro e latte di cocco.
Bollito… alla palermitana. Un altro accenno alle contaminazioni geografiche con la guancia di vitello salmistrata. Elegante l’impiatto con il foglio di gelatina del brodo a velare la carne. Completa il succo di insalata versato al tavolo.
Terrina di fegato grasso d’anatra. Marinato a crudo ecco il foie gras, accompagnato da albicocche, mandorle, miele e lavanda. Abbinamento zuccherino classico con dell’ottimo pan brioche. E qui ci sono tutti gli anni con Heinz Beck.
Risotto. Buona mantecatura, equilibrio in gioco dolce/sapido con il finocchio e le polpette di alici.
Ravioli alla “Neranese”. Una variazione sul tema omaggio al piatto simbolo di quel tratto di Costiera Sorrentina. Le zucchine sono dentro e fuori il raviolo poi condito con burro e parmigiano.
Cannelloni. Con ragù di agnello, cicoria, latte di pecora e pecorino. Intensità a fondo scala per un solido piatto di territorio.
Spigola. Torna l’anima siciliana con il cous cous speziato a profumare la densa riduzione del fumetto di pesci di scoglio. A lato un cucchiaio di introduzione al piatto con una tartare con note vegetali.
Piccione. Un altro classico in tavola. Una ricomposizione delle sue parti con pop corn, cipollotto e le dissonanze del coccolato bianco e del caffè.
“Verde”. Cannoncini al mascarpone, biscuit alla scarola, succo di erbe di campo, amaro benedettino e gelato alla gianduia. Nome minimale per un dessert di struttura viceversa complessa, di contrasti e addizioni. Si compone boccone dopo boccone con un gran finale al palato.
Al bancone del bar per i conclusivi petit four.
Per raccontare quanto la famiglia Alciati sia stata, ed è tuttora, un pilastro portante dell’alta cucina langarola ci vorrebbero anni.
Una storia che affonda le radici in questo luogo magico. E che continua a perpetrare una tradizione fatta di grandissima ed accurata selezione di ingredienti, composta da una fila enciclopedica di piatti e di preparazioni, classiche, da far invidia alla Francia intera.
Da Guido è una istituzione e i figli Piero (in sala) e Ugo (in cucina) continuano a portare avanti questa tradizione con grande competenza, senso del gusto e attenzione. Ospitati e accolti nella splendida Villa Reale della tenuta Fontanafredda, luogo di rara magia e fascino discreto.
E anche in quest’occasione, momento in cui un manipolo di amici si ritrova per approfondire l’annata tartufesca 2016, si sono dimostrati ai vertici della cucina classica italiana. Con piccoli tocchi di attualità, usando tecniche moderne, alleggerendo alcuni passaggi e preparazioni. Facendo ciò che un cuoco dotato di buon senso e di ottima tecnica farebbe. Lasciando cioè il più intatto possibile il sapore e il “profumo” dei grandi classici di questa terra. Ma le ragioni del successo di questa famiglia non affondano solo nella grande capacità tecnica ed intelligenza di entrambi i fratelli. Risiedono anche e sopratutto nella capitalizzazione di una storia che ha visto, da generazioni, l’approfondimento e la conoscenza del territorio e dei suoi massimi esponenti. Che significa, in parole povere, saper dove trovare la carne migliore, la verdura migliore, il tartufo migliore… e così via.
Potrebbero vivere di rendita gli Alciati, ed invece continuano ad apportare piccoli ritocchi, impalpabili cambiamenti, qualche piccolo soffio impercettibile per migliorare costantemente ed attualizzare una cucina così perfetta e precisa che più non si può.
Ne sono un esempio gli antipasti, tutti di una precisione tecnica invidiabile ma al contempo di una leggerezza quasi eterea. Ma tutto il pasto, di fatto, scorre via senza batter ciglio. Senza un filo di grasso in eccesso, senza una imperfezione né stilistica né di cottura, né tanto meno di consistenza.
Impresa tutt’altro che facile, ma impresa certamente vinta, non v’è dubbio alcuno!
La splendida facciata della Villa Reale in Tenuta Fontanafredda.
Il tavolo conviviale.
La splendida Molteni.
La cantina.
Cardo di Nizza, acciughe, pera.
Strepitoso Carpaccio di vitella.
Uovo in camicia, di una qualità e precisione tecnica invidiabili, patate, parmigiano.
Gli agnolotti di Lidia al tovagliolo.
Cosciotto di capretto di Roccaverano al forno.
Con olio e pepe fresco.
Non diciamo nulla di particolarmente originale se rileviamo come il livello dei ristoranti “etnici” sia normalmente alquanto basso. Per restare alla sola Milano, fatta eccezione per qualche cucina orientale di ottimo livello, il panorama è desolante. Riproposizioni piuttosto approssimative delle cucine originali, qualità delle materie prime a tratti imbarazzante e, più in generale, cuochi che trasmettono un diffuso senso di improvvisazione e inadeguatezza. Ecco perché quando ci si imbatte in qualche eccezione se ne resta piacevolmente colpiti.
Albufera è il nome del lago più grande di Spagna e di un luogo di grande interesse ecologico nella zona di Valencia. Una terra umida, ricca di acque salmastre che fanno la fortuna dei coltivatori di riso. E non a caso Albufera è anche il nome della più recente varietà di riso rientrante nella denominazione d’origine “Arroz de Valencia” accanto alle più famose Bomba e Senia.
Albufera è anche il nome di un ristorantino piccolo e accogliente (30 posti, la prenotazione è d’obbligo, ma già si parla di un trasferimento in una nuova location più grande), gestito dallo chef Mateus Avila Lobo Coelho (brasiliano di origine ma valenciano d’adozione) e dalla sua compagna Alice Paglia, che si occupa della sala. Un’enclave spagnola al centro di Milano.
Qui tutto parla rigorosamente spagnolo, dalla carta alla cantina senza compromessi. Il menù è rigorosamente stagionale e si apre come da tradizione con un bell’assortimento di tapas, una ventina in carta, a cui si aggiungono le tapas del dia. Unica concessione all’Italia le dimensioni. Che sono da antipasto più che da tapas vere e proprie.
Tutte rigorosamente preparate al momento. Nel nostro caso: Puntillas bravas, Tris de croquetas, Calamar a la plancha, preparazioni ben eseguite che denotano una buona materia prima.
Il preludio ideale per il piatto forte che, naturalmente, è la Paella. In carta ve ne sono di cinque tipi, ma manca quella mista carne-pesce. Noi abbiamo assaggiato la Valenciana, la paella delle origini, senza nessuna concessione alla modernità: riso (Albufera, ovviamente), pollo, coniglio, lumache e verdure di stagione. Prodotti semplici della terra e animali da cortile come tradizione vuole. Ottima, così come la Paella de marisco con gamberoni, gamberi, scampi, calamari, totani e cozze.
Riso cotto perfettamente, chicchi perfettamente sgranati e socarrat (l’irresistibile crosticina di ogni paella che si rispetti) d’ordinanza. A voler trovare il pelo nell’uovo, secondo noi un pizzico di paprika dolce affumicata in più avrebbe aumentato il carattere della preparazione, ma sono dettagli.
Interessante la carta dei vini tutta incentrata su etichette spagnole. Non manca ovviamente una selezione di birre spagnole, e un’ottima sangria.
In sintesi, un locale davvero carino, una cucina molto curata, un servizio molto buono.
La lavagnetta con le tapas del giorno.
Puntillas bravas. Calamaretti fritti con salse maison: pomodoro piccante e maionese all’aglio.
Tris de croquetas, tre deliziosi bocconi: jamon e besciamella; patate e baccalà con marmellata di fichi e peperoncino; nero di seppia, calamari, besciamella e maionese alla paprika.
Calamar a la plancha: calamaro alla piastra con salsa all’aglio nero.
Paella de marisco.
Un assaggio di ottima Paella valenciana.
Dessert: crema catalana, capricho de chocolate, bombas de churros al dulce de leche.
Alle spalle di piazza dei Martiri, nel cuore pulsante del quartiere Chiaia, un piccolo vicolo porta a una piazzola dove c’è un garage, di fianco al quale una piccola e discosta salita porta all’entrata improbabile e decisamente poco appariscente di uno dei salotti gastronomici più interessanti della città.
Mai come in questo caso a Diego Nuzzo, più che patron, si addice senz’altro la definizione di padrone di casa. Questo non per retorica pomposa e priva di sostanza: sarete davvero guidati e consigliati, sia che siate affezionati clienti o che siate alla vostra prima visita, con viva partecipazione nelle migliori scelte da fare in un menù ricco di opportunità e di stimoli golosi.
La materia prima, per lo più ittica, è selezionata da affidabili fornitori che nel tempo -il primo Coco Loco, ora chiuso, risale al 1995- hanno costruito col titolare un sodalizio affidabile e durevole.
Il locale, una sala principale ampia e molto accogliente con sedute anche al bancone cui se ne aggiunge un’altra, separata, per degustazioni ed eventuali meeting, è depositario di un’atmosfera davvero rilassante, quanto mai adatta a gustare una cena in un ambiente ovattato e decisamente confortevole.
Un ristorante che fa della piacevolezza complessiva il suo punto di forza, adatta a serate conviviali, a cene tra amici, o a intimi rendez-vous se vi ci si reca in coppia.
In tale ottica la cucina è al completo servizio di tale prerogativa con presentazioni semplici, tradizionali in cui la materia prima è presentata con cura e professionalità. Sarà possibile assaggiare così una genovese fatta davvero a regola d’arte, con tanto di muscolo e strutto, di quelle che restano impresse nella memoria, o una squisita linguina con totani e bottarga dalla cottura della pasta capace di soddisfare anche il suo più impenitente cultore.
Da non perdere anche le varie tartare, e un’insalata di ovoli e Parmigiano Vacche Rosse di notevole spessore.
Da ricordare che la domenica il ristorante è aperto solo a pranzo, e ripropone tutti i grandi classici della cucina napoletana (normalmente non presenti in carta) per un grande revival del territorio.
Interno.
Pane.
Cannolicchi…
Tartufi…
E vongole alla brace.
Tartare di tonno e dentice, ventresca e calamari.
Scampi e gamberi.
Polpo arrosto con patate.
Scampo fritto in crosta di tagliolini con maionese all’arancia.
Baccalà in pastella con provola su letto di friarielli.
Porcini fritti.
Insalata di ovoli e parmigiano vacche rosse.
Porcini alla griglia.
Linguine totani e bottarga.
Un’ottima genovese rigorosamente con strutto, muscolo e cipolla.
Cannolo scomposto e millefoglie con crema chantilly.
Dalla fornita cantina…
Eugenio Boer, se fosse presente nel bellissimo libro “Giovani & Audaci, cronaca semi-seria della nouvelle vague Italiana in cucina” sarebbe sicuramente catalogato come “duro”.
All’apparenza l’uomo Denim, che non deve chiedere mai. Ma, dietro la scorza possente, nasconde un animo sensibile e tutt’altro che rigido e cazzuto.
Quando poi ti parla, spesso scivola nel suo accento ligure, tramandato dalla madre, che mette in ombra la sua anima da biker maledetto, proveniente direttamente dai sobborghi di Amsterdam, in Olanda, sua seconda patria.
E tu sorridi, perchè la sua cucina è lo specchio di tutto questo. Sembra quello che non è. Ed è ciò che non sembra.
Sembra moderna, à la page, alquanto trendy. Quasi non fosse chiaro che ci troviamo nel suo ristorante a Milano, potremmo essere nei Paesi Bassi, come in Australia o California.
Poi invece la affronti, la sfogli come una cipolla, vai appunto all’essenza e scopri una cucina personale, con una timbrica classica davvero importante. Qui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni di sapori passano attraverso il veicolo del più esasperato classicismo d’oltralpe, ma non solo.
Gran classe ed eleganza, uso imperioso di componenti lipidiche, ben addomesticate, sapori maschi e ben distinti, intensi. Una cucina certamente importante, d’altra parte Eugenio è il primo a dirvi che al suo ristorante si mangia, e si mangia davvero!
Ma questo non preclude a questa realtà una sorta di eleganza di fondo, di accuratezza nel senso delle proporzioni, di visione moderna di preparazioni classiche che ci fanno certamente affermare che questo cuoco è sicuramente un personaggio che lascia il segno, la sua impronta, su tutto il suo operato.
Se volessimo fare qualche piccolissimo appunto, potremmo solo dirvi che non è fatta per percorsi chilometrici, ma questo potrebbe essere anche un pregio, e sopratutto potremmo dirvi che, per spiccare decisamente e definitivamente il volo verso l’alto olimpo, si potrebbe risparmiare qualche reiterazione stilistica (la “grattugiata” in molti piatti, seppur di derivazione ed elementi differenti, e lo stile d’impiatto per citare due esempi).
Ma qui, in questo momento, siamo al cospetto di un luogo tra i più interessanti presenti a Milano oggi, certamente nella nostra personale top five. Questo anche grazie ad un servizio, c’è da dirlo, giovane, spigliato, divertente, ma molto preciso e professionale. Forse solo un pochino in affanno, dicono le nostre varie visite, a locale pieno.
Ma questo è un posto da tenere ben presente sul vostro taccuino gourmet, fidatevi!
Il Nostro Benvenuto: il percorso dello chef in cinque piccoli ricordi.
L’ottimo pane.
Il primo compagno di viaggio.
Canederli: brodo ristretto di legno di castagno, canederli di spinaci, funghi pioppini e castagne crude.
Finferli: bavarese di finferli, aceto di sidro, blu del Moncenisio e semi di zucca.
Quaglie, Prugne: quaglia, umeboshi, nocciole del Piemonte, sedano rapa e foie gras.
Autunno: cappellaccio di pasta fresca alle castagne, zucca alla mantovana, porcini, jus di terra, topinambur e un terriccio di funghi ed erbe.
Altro compagno di avventura…
Carpa alla brace: tortelloni di segale, zabaione all’aneto, patate rosse alla panna acida e mele.
Lièvre à la Royale: tagliatelle di pasta fresca al civet, ragout di lepre, foie gras e tartufo nero.
Fantastico questo pinot grigio di Princic…
Risotto alle lumache: lumache, aglio nero, prezzemolo e ribes.
Storione: kefir, spinaci, olivello spinoso e caviale.
Un altro vino in accompagnamento…
Cassoeula: verze e maiale.
Sud.
Pollution: liquirizia, sesamo nero e cioccolato fondente affumicato.
La piccola pasticceria.
Qualche scorcio…