Te lo aspetti più o meno così il ristorante di Rosanna Marziale, a Caserta. Un’idea che si anticipa prima con la facciata del Palazzo Reale, in quella sua interminabile fuga prospettica, poi con quel nome che necessariamente evoca un ambiente classico, di quello con i marmi lucidi da calpestare, il pianoforte e i gessi ad incorniciare pareti.
Una contaminazione con la modernità che qui non avviene negli ambienti, particolarmente austeri, rimasti pressoché invariati dall’apertura di quella “Bomboniera” voluta dal padre Gaetano negli anni ’50 poi divenuta “Le Colonne”, ma in alcuni piatti che la figlia Rosanna, esperienze giovanili da Berasategui e Vissani, ha introdotto con cautela e parsimonia in un menù fortemente territoriale, e sostanzialmente riferito alla tradizione.
La carta, sempre molto curata ed elegante (c’è addirittura la possibilità di comprarne la versione illustrata ed ampliata a venti euro) raccoglie idee consolidate negli anni, quasi a raccontare una storia in cui riconoscersi, con i pomodori e i prodotti caseari, la pasta secca e le carni locali, le mele, l’olio, il pane. Piatti rigorosi, solidi con la scelta della materia prima, la giusta attenzione alle cotture e il gusto dell’impiatto. Poi, qua e là, alcune variazioni sul tema, dove forte traspare il tema del gioco e dell’occultamento, fondamentalmente riferito all’uso della mozzarella di bufala, alimento già concluso in sé, difficilmente maneggiabile e dove la chef, viceversa, dimostrando coraggio e mestiere, prova a giocarsi le sue carte.
L’idea di rimozzare la sfera bianca inserendoci altro all’interno è sin dal 2003 tradotta nel segreto di quel tagliolino al basilico, e nella successiva frittura della mozzarella impanata. Poi, ribaltando le gerarchie dell’altra icona della gastronomia campana, ecco la mozzarella diventare supporto di una “pizza al contrario” dove il pomodoro unitamente al pane croccante ne colora la superficie con un risultato di verosimiglianza sorprendente.
Due idee semplici e geniali, da cui adesso sono stati derivati due piccoli menu dedicati ad accogliere le variazioni sul tema che ancora continua ad elaborare.
Il tema del camouflage ritorna con “Evanescente” dove l’uovo deflagra al primo colpo di cucchiaio colorando il fondo di burro di bufala e colatura di alici rinforzato con le briciole di tarallo. Piatto apparentemente semplice ma che nasconde l’insidia del controllo di sapidità e della cottura dell’uovo, entrambe però da tarare con più precisione.
L’agnello Laticauda risulta viceversa un piatto costruito e ben bilanciato grazie all’uso delle contrapposizioni gustative: la cipolla di Tropea con lo zafferano, l’aceto della scapece di zucchine con l’affumicato della salsa di patate. Carne di qualità.
Dessert non molto intriganti sebbene vitalizzati con inserimenti di note differenti come il Conciato Romano, la birra o la mozzarella, con la quale infatti si potrà costruire una intera degustazione.
La sala. Marmi, stucchi, colonne. Richiami alla classicità.
Sfogliatella salata, ricotta e spinaci. Una entrée che forse andrebbe aggiornata.
Pane cafone, chips al pomodoro e bianco. Buono quello ai cereali.
Pizza al contrario. Datterini rossi e gialli, pesto di basilico, fiocchi di ricotta e fresella. Piatto di grande effetto ed inevitabilmente goloso, come antipasto sarebbe meglio dividerlo, in quanto eccessivo.
Evanescente. Uova con burro di bufala, colatura di alici e taralli napoletani. Prima e dopo l’affondo di cucchiaio. Pecca di una cottura non omogenea dell’albume e di eccessiva sapidità.
65° Laticauda. Agnello cotto a bassa temperatura, salsa di patate grigliate, zafferano, zucchine alla scapece, cipolla di Tropea. Carne di qualità, buona cottura, accompagnamento che funziona.
Conciato per le feste. Dessert al cioccolato con succo di frutti rossi. Il cuore è di conciato romano, il fantastico formaggio stagionato di Manuel Lombardi.
Piccola pasticceria.
Una cena da Massimo Viglietti è sempre un momento di stimolo e di riflessione, ma a volte è anche foriera di spiazzanti perplessità.
In un mondo gastronomico progressivamente omologato a stili meccanicamente riproposti, e che sfrutta fino all’osso format che spesso mostrano la corda, varcare la soglia dell’Enoteca al Parlamento rappresenta una salutare sferzata per chiunque voglia provare qualcosa di veramente diverso.
L’entrata del ristorante di per sé rappresenta già una particolarità: sembra di essere in una di quelle piccole cattedrali esclusivamente consacrate al culto del vino, un sancta sanctorum con bottiglie disposte in ogni dove, capaci persino di creare imbarazzo per potenzialità delle scelte possibili, varietà di annate nonché per l’accessibilità dei prezzi.
Nulla di sorprendente in realtà, trovandoci in effetti in una vera e propria enoteca costruitasi nel corso dei decenni, e depositaria di una certa notorietà già prima di entrare nella cerchia dei ristoranti di valore.
In fondo ecco poi la piccola saletta, dove quattro-cinque tavoli rappresentano il palcoscenico dove avviene il vero scarto, la vera e propria virata.
Qui, da poco più di due anni, in contrasto con l’austera solennità dell’ingresso, quasi che esso ne rappresenti l’ingegnoso trompe l’oeil, un inganno dissimulatore, la cucina di Viglietti, non più profeta in patria in quel di Alassio, va in scena a due passi dal Parlamento, per la fortuna degli avventori romani.
Per goderne appieno l’atteggiamento migliore sarebbe quello di liberarsi da tutti i lacci che possono tenere legati a trascorse memorie di rassicuranti traiettorie gustative. Ci si trova di fronte a una personalissima anarchia dettata da autentica ispirazione e permeata di profonda sensibilità e cultura gastronomica, la cui unica bussola è rappresentata dal proprio sentire, senza ostacoli di sorta che siano distinzioni dolce-salato o la progressione cronologica antipasto-dessert.
Considerato tale tumulto ragionato ci appare doveroso abbandonarsi per godere dell’estro creativo dello chef senza preclusioni di sorta verso il mai banale e mai scontato luna park vigliettiano.
In quest’ottica il menù degustazione è sempre apparso come il passepartout ideale per avere un’idea, la più compiuta possibile, del suo concetto di cucina.
I vari percorsi non annoverano fra i loro pregi però quello della costanza, presentando a volte notevoli differenze anche all’interno dello stesso menù, in cui la concezione di alcuni piatti sembra difettare di senso della misura, intesa non come limite, bensì come confine oltre il quale anche una grande idea perde l’attributo dell’eccellenza per qualificarsi piuttosto come occasione non adeguatamente sfruttata. Per questa ragione siamo dovuti tornare sui nostri passi, ponendo più coerentemente l’Enoteca al Parlamento ad un livello più consono allo stato attuale del risultato altalenante espresso da molti passaggi quest’anno.
Tanto per intenderci nella nostra ultima esperienza la dolcezza caratterizza sia l’entrée del gelato alle acciughe che soccombe di fronte a pinoli e peperoni sia l’insalata di spinaci con lingua di vitello e baccalà che sarebbe un piatto di grande livello se la componente ferrosa della verdura, quella grassa della carne e la sapidità del pesce non fossero dapprima accompagnate e poi, appunto, sovrastate dalla dolcezza della composta di lamponi.
Allo stesso modo la trota confit con salsa di nocciole, spinaci e ravanello vede l’equilibrio travalicato dalla nota eccessivamente dolciastra della salsa.
Altri piatti sono invece pura testimonianza della classe cristallina di un grande chef come Massimo Viglietti: il dentice marinato nello yuzu con tapenade di cioccolato bianco, olive e polvere di pesto in altre mani avrebbe potuto essere una bomba a orologeria, e invece resta un mirabile esempio di maestria gastronomica, goloso ma elegante, rustico e raffinato al contempo.
Idem il piatto con spugnole, ingrediente molto amato dallo chef, foie ed emulsione di albicocche.
Tecnica come sempre inappuntabile al servizio di un’autorialità a volte straripante e impulsiva ma sempre fedele alla propria visione di cucina.
A quanti chef verrebbe poi in mente di portare un barattolo vuoto con uno straordinario concentrato di menta piperita da annusare per resettare il naso prima del dolce?
Un dolce in cui le diverse e più svariate note balsamiche, che contemplano perfino una sigaretta elettronica, ne rappresentano coerentemente la chiave di lettura.
Noi che apprezziamo l’istintiva costruzione dei piatti di Massimo Viglietti non possiamo non tenere conto dell’altalenante riuscita degli stessi che catalogano comunque la sua tavola come una delle più interessanti a Roma, dove appassionati, e non, di alta cucina troveranno sempre mille opportunità di riflessione e divertimento.
Mise en place.
Pane.
Gelato di acciughe, pinoli e peperoni confit.
Insalata di spinaci, baccalà, lingua di vitello, lamponi.
Dentice marinato nello yuzu, tapenade di olive e cioccolato bianco, polvere di pesto, carota e frolla.
Cremoso di rognone su vellutata di patate al gin, gambero scottato.
Trota confit salmonata, polvere di patate sbriciolate, salsa alla nocciola e rapanello, spinaci.
Spugnole, foie ed emulsione di albicocche e limone (sapientemente acida), shiso.
Spuma di limone e bottarga e riduzione di Campari, sbriciolata di lamponi, semi di lino, girasole e zucca. Grande classico dello chef.
Un sorbetto per il naso: essenza di menta piperita per pulire il naso.
Gelato alle Fisherman’s friends, frolla acidula di frutti rossi, infusione di diversi tipi di menta e pepe ed erbe balsamiche, caramella sukai alla liquirizia, sigaretta elettronica.
Petit fours.
Posate.
Con noi al tavolo…
Particolare della sala.
Per raccontare i Troisgros è necessario soffermarsi sulla famiglia, prima ancora che sui singoli individui, analizzando la magia che sono in grado di creare durante la trasmissione dei geni di generazione in generazione, limpido esempio di come il talento puro possa essere tramandato.
Ammirando la semplicità con cui tutto si svolge, ci si renderà conto di essere al cospetto di qualcosa di superiore, di immenso, forse di divino. Una straordinaria decisione che si mostra nella consapevolezza di essere una parte tangibile di storia, non solo inerente alla gastronomia, ma di riferimento all’evoluzione di una nazione intera. Con una acuta delicatezza il fluire degli anni viene accompagnato, raggiungendo l’obiettivo che coincide con il visionario e romantico tentativo di addomesticare il tempo, dandogli un’importanza relativa, facendo sì che sia esso stesso a seguire i dettami che loro, gli interpreti generazionali Troisgros, gli impongono.
E come lo scorrere del tempo pare non essere un problema, in casa Troisgros si è deciso di voler veicolare una sensibilità innata nei confronti degli ingredienti attraverso il loro dominio, in modo da riuscire nell’intento di saper ascoltare la natura e apprezzare quanto lei possa offrire, ma allo stesso tempo di saperla gestire e plasmare a proprio piacere. Ciò rende il cuoco stesso natura, in una prospettiva gerarchica ben definita che lo vede sovrano, in cui ogni elemento conosce il proprio ruolo e si attiene a svolgere il proprio compito nella miglior maniera possibile. Non si potrebbero spiegare altrimenti le sfumature aromatiche presenti in ogni preparazione, quasi impercettibili eppure fondamentali per la riuscita di composizioni inarrivabili.
D’altronde se qualcuno ha inventato i fiori e il loro profumo, allora sarà compito dell’artista concedersi la licenza di ricrearne tutte le sfumature olfattive ed emotive all’interno di un piatto. La fortuna in questo caso è che il genio in questione si trova a Roanne, di professione fa il cuoco e che a quanto pare ha saputo assimilare la sua straordinaria dote dal padre, sapendola ora trasferire al figlio.
I Troisgros hanno saputo prendere la tradizione francese, rielaborarla con squisito tatto, in modo da lasciarne inalterati i tratti, contestualizzandola però alla contemporaneità. Lo studio delle acidità, il loro apporto al piatto, non solo in chiave meramente gustativa ma propriamente culturale, ha regalato un nuovo modo di concepire la cucina, sfiorando l’interpretazione classica con un’anima straordinariamente moderna. L’acidulè presente nei piatti riempie l’esperienza come le virgole danno un senso ad una frase, divenendo quindi un tutt’uno con essi, in modo da non poterli più immaginare senza il suo apporto. Un’impronta creata e lasciata in eredità al mondo della gastronomia con il marchio registrato ben impresso.
La decisione e la naturalezza che traspaiono ad ogni boccone è interdittoria per chiunque. La nettezza impressa dalle erbe aromatiche, il grado garbato di acidità di ogni fondo, la cottura rispettosa della materia, riescono ad essere difficilmente spiegabili se non attraverso la loro fruizione materiale. Una commistione di culture e tecniche di lavorazione al servizio di un grande palato. Trippa, plin al pomodoro e nocciole, foglie di sedano e coriandolo con succo di anatra e aceto esemplifica la filosofia di cucina di casa, andando a toccare morbidamente tradizioni culinarie diverse, armonizzandole tra loro attraverso i dettagli acidi e aromatici della mandorla cruda, della foglia di sedano e dell’aceto presente nel succo d’anatra. Un trionfo di sfumature necessarie che trovano la loro essenza all’interno di una complessità di architettura del piatto e di metodologia ferrea, ma che come risultato regalano un’emozione, che in quanto tale riesce ad essere comprensibile a tutti.
Grazie a Troisgros abbiamo potuto raggiungere livelli di piacevolezza come mai prima in ambito gastronomico. Ma lo spunto di riflessione per capirne la grandezza potrebbe essere un altro. A che punto saremmo se il ristorante Troisgros non fosse mai esistito? Sicuramente mancherebbe un tassello fondamentale per concepire l’idea che la perfezione risiede nella semplicità, singolare affermazione che riguarda il mondo dell’arte nella sua interezza, di cui la famiglia Troisgros ne rappresenta l’epitome in chiave gastronomica.
Uno scorcio della sala.
Pomodoro caramellato, sesamo e zenzero. Un classico leggendario.
Anguria, pepe, biscotto al parmigiano e mostarda; panna cotta al limone verde e giallo con riso fritto; pane soffiato con purè di carote e zest di limone.
Il burro e il panino al burro.
Il pane.
Il primo dei vini in abbinamento.
Insalata rossa. Pompelmo, radicchio, mirtilli, ravanelli, anguria, rabarbaro. Un’entrata trionfante che ruota attorno ad un gioco freddo di consistenze, tra dolcezze, punte acidule e qualche nota amaricante.
Cozze, crema di zafferano, funghi, velo di latte e mandorla fresca. Elogio all’eleganza. Incredibile l’apporto aromatico della mandorla. Grande piatto in cui la tecnica estrema si fonde con una piacevolezza di base non scontata.
Trippa, plin al pomodoro e nocciola, foglie di sedano, coriandolo e succo d’anatra ed aceto. Una colpa per ogni appassionato che non si sia ancora concesso il piacere di assaggiarlo.
Gamberi di fiume, indivia, lampone, fiori di ciliegio e acqua di pomodoro. Passaggio straordinario. L’acidità più spinta rispetto agli altri piatti è smorzata e resa elegante dalla perfetta cottura dei gamberi. I fiori di ciliegio si manifestano come attori non protagonisti del piatto regalando dinamismo ad ogni boccone. Esemplare.
Sogliola sovrapposta, crosta di pane, cipolla marinata in aceto, erba cipollina, salsa dashi e panna. Piatto meno fotogenico ma non per questo inferiore ai precedenti. La cottura della sogliola è da manuale, mentre la golosità della salsa è dosata grazie all’acidità della cipolla marinata.
Animelle, curry e arancia, zucchine e fondo di vitello. Piatto di un equilibrio sottilissimo e perfetto. Da Troisgros ogni ingrediente ha un’importanza fondamentale per la riuscita della preparazione.
Il carrello dei formaggi.
Nel dettaglio.
Il nostro piatto di formaggi.
Confetture di ciliege e pepe e di pomodori e vaniglia in abbinamento.
Viallat est passé par là. Omaggio al pittore di Nîmes composto da menta, rabarbaro e cocco su un letto di biscotto crumble.
Millefoglie, arancia amara e frutti di bosco.
La piccola pasticceria.
Il bel giardino esterno.
Se Bushwick, il quartiere hipster di Brooklyn, è diventato una meta di pellegrinaggio di arditi foodies, è soprattutto merito di Carlo Mirarchi, cuoco bistellato che da queste parti circa dieci anni fa aprì, in partnership con Brandon Hoy e Chris Parachini, quella che tutt’ora, secondo molti esperti e appassionati del genere, è un tempio della pizza.
Parliamo di Roberta’s, insegna ormai famosa quasi quanto Katz’s per le giovani generazioni newyorkesi.
Bene, è ormai facile scorgere quella scritta rossa in carattere corsivo in diversi punti della città: dall’Urban Space nei paraggi del Grand Central Station, dove c’è una mini succursale che sforna centinaia di pizze al giorno, ai supermercati, dove è addirittura possibile comprare la pizza surgelata, fino all’imponente catena Whole Foods, che in qualche stabilimento di Brooklyn vende prodotti da forno provenienti dalla bakery della scuderia Roberta’s. Un marchio insomma che imperversa un po’ ovunque da quelle parti.
Un marchio dietro il quale c’è un’idea che è molto di più di una semplice operazione di marketing. Il successo di Roberta’s è arrivato a furor di popolo, partendo proprio da questo quartiere, fino a pochi anni fa malfamato.
Approdare a Bushwick, al di là del ponte di Williamsburg, è spaesante sebbene comodo e facile da raggiungere (da Union Square ci sono poche fermate di metro “L”). Usciti dalla metro, da un lato ci si ritrova in un quartiere ancora in fase di espansione, diversamente da altri centri d’interesse più di tendenza, quali Williamsburg o Dumbo, dall’altro ci si imbatte in un flusso di gente volto verso un’unica direzione, ossia verso quello che negli States è considerato uno dei più straordinari ristoranti del Paese. Un complimentino affibbiato nientepopodimeno che dal New York Times. E capiamo il perché ci sia tanto entusiasmo dietro questo progetto.
Parliamo, in primis, di in uno di quegli esempi lungimiranti e pragmatici della florida industria della ristorazione americana. Un luogo che suscita di per sé curiosità. Non è un caso se, dagli Obama alla coppia Jay Z-Beyoncé, in tanti hanno varcato la porta rossa del Roberta’s. Parliamo di un capannone trasandato, un ambiente caotico in cui il personale di sala si confonde con e tra i clienti, uno studio radio “on air” che trasmette musica sul broadcast che va in onda sul sito web del ristorante, illuminazione da pub di provincia, quadri che raffigurano arcimboldeschi volti di pizza dei cowboy di Brokeback Mountain, e tanta gente, dentro e fuori il locale.
Affascinanti elementi che passano impietosamente in secondo piano rispetto al cibo servito. Semplicissimo e disarmante: affettati, insalate, pasta, pizza e poco altro. Non c’è trucco e non c’è inganno. Praticamente l’abc della cucina nostrana fatto, preparato e servito come Dio comanda.
Qui si viene per le pizze… e che pizze! Dall’impasto -farina 00, farina integrale, sale, olio e lievito secco, 24 ore di lievitazione e riposo in frigorifero fino a una settimana- agli ingredienti, dalla cottura alla digeribilità. Tutto sopra le righe. Davvero un prodotto che inorgoglirebbe il più scettico dei patriottici.
Ma è quando assaggiamo quel poco d’altro che comprendiamo il perché di tale acclamazione. A pranzo e per il brunch la proposta è semplificata, con insalate e qualche piatto di pasta oltre le pizze. A cena la faccenda diventa invece più complessa, con piatti come il carpaccio di wagyu frollato o la porchetta alla brace con peperoni, chimichurri e romesco.
Il nostro pranzo ci ha regalato due insalate dal sorprendente impatto, e due pizze che sembrano sfornate da un grande pizzaiolo napoletano: la margherita è semplicemente buonissima, con una salsa dolce e la cottura centrata. Una pizza in stile napoletano, con cornicione pronunciato e disco soffice ma con una consistenza poco molle. La white&greens, con mozzarella, parmigiano, verdura di campo e limone, mette in risalto le capacità dello chef di creare una pizza gourmet con pochi e semplici ingredienti ben valorizzati, emblema di una filiera di prodotti controllata dalla semina al raccolto. E’ interessante a tal proposito una visita al miracoloso giardino pensile, creato sul tetto del capannone, dal quale vengono raccolte alcune delle verdure utilizzate nelle preparazioni.
Oltre alle birre e agli immancabili cocktails, c’è una vasta carta di vini internazionali, impressionante per una pizzeria, che si focalizza soprattutto sul biologico.
Insomma, stentiamo a credere che Mirarchi & soci, nonostante questo clamoroso e continuo successo, abbiano intenzione di cullarsi sugli allori, qui c’è sempre una novità dietro l’angolo, così come ce n’è davvero per tutti i gusti e per tutte le esigenze.
Quanta voglia di tornare…
I modestissimi interni.
Una birretta.
Lattuga, noci caramellate, menta e pecorino.
Notevole insalata di anguria avocado, black lime, pepe nero, basilico e chili.
L’eccellente margherita.
White and Greens.
La cui cottura è pressappoco perfetta.
È buonissimo anche il “dolcino”: una burrosissima brioche calda con gelato allo zenzero. Calorie? Sarà per la prossima volta…
Uno dei banconi bar.
Qualche vino riconoscibile.
Un consiglio: bisogna armarsi di pazienza, specie il weekend. Se si vuole evitare l’attesa, dietro la pizzeria c’è il panificio che sforna anche pizze take away. Gli avventori demoralizzati dalla coda acquistano qui la pizza e poi la mangiano nei tavoli all’esterno del locale, un gigante tendone all’aperto, con tavoli in legno da condividere.
La porta rossa.
Stimolati dalla stringata ma come sempre affidabile segnalazione del buon Luigi Cremona, e stuzzicati non poco dalle fotografie che abbiamo visto sul suo blog, ci siamo precipitati qui, a Desenzano. Arrivati in anticipo, una sera di fine estate, abbiamo ripiegato per un aperitivo al vicino Leprotto, il bistrot di famiglia con l’entrata di fianco al ristorante.
Bello scoprire in un posto come questo, che grazie alle frotte di turisti che assediano la cittadina non ne avrebbe affatto bisogno, un concentrato di competenza, passione, gioia di fare il proprio mestiere e tanta, ma davvero tanta, divertente e piacevole giocosità.
Ci accoglie una giovanissima ragazza, che ci mette cinque minuti secchi ad inquadrare degli appassionati, mettendoci nel calice per l’aperitivo un Cremant biodinamico di Borgogna. Un po’ sgasato, un po’ imperfetto… ma con grande fascino e charme, per un Cremant s’intende.
Bello davvero scambiare due chiacchiere con questa giovane entusiasta, che ci racconta delle sue scorribande enologiche alla scoperta di chicche tra le più estreme che si possano immaginare.
Questa è l’aria che sin da subito abbiamo respirato alla Lepre. Nome assai impegnativo, che metteremo certamente alla prova. Con cosa? Bien sûr, Lièvre à la Royale, parbleu!
Perchè il giovane cuoco, Roberto Stefani, vanta trascorsi da Marchesi e da Guida. E forse anche qualche puntantina oltralpe lo deve avere formato a dovere. Lo chef ha manico, una mano elegante da Saucier davvero invidiabile. Una serie di tocchi che ci hanno fatto volare direttamente alla Ville Lumière, come quell’indivia cotta in un boullion che da solo parlava, e poi ripassata alla plancia per rilevarne gli zuccheri, come direbbe qualche cuoco famoso.
Bravo davvero lo chef, che con mano decisa ci ha proposto una serie di preparazioni, ad un prezzo encomiabile (menù degustazione di 6 portate a 59 euro) e di qualità eccelsa.
Ma quindi, manca qualcosa? La risposta è che ci aspettiamo, da un talento tanto pulito e cristallino, qualche azzardo in più. Magari non come quello spada, culatello, crescione e melone, molto confusion e poco fusion.
Belle, centrate e coerenti le altre preparazioni, con una mano sensibile, lo ripetiamo, sulle salse e sui fondi. Ma leviamo quei rametti tutti uguali, lasciamoci l’insicurezza alle spalle, perché il cuoco ha una padronanza che deve lasciar scorrere.
La vostra serata trascorrerà nel migliore dei modi anche grazie a Walter Viganò, che in sala vi delizierà con la sua classe nonché la sua elegante e dimessa presenza. Cantina interessante, molto indirizzata verso il naturale e la biodinamica, ad un prezzo competitivo.
Dunque andate di corsa alla Lepre, senza alcuna esitazione, e incoraggiate questo gruppo di giovani ragazzi che promettono davvero tanto e bene!
Amuse bouche: tartare di salmone e panna acida.
L’ottimo pane, accompagnato da burro di qualità.
Il nostro eccellente, ed ancora in forma, compagno di viaggio.
Gamberi, tartufo, yogurt, pesca. Interlocutorio.
Capasanta, yuzu, prezzemolo, ricotta e macedonia di frutta. La salsa, ah mon dieu!
Raviolo aperto, con una elegante bisque tirata alla francese con un filo di panna (ma che salsa!) ai frutti di mare e crostacei. Il pomodorino? Inutile, pleonastico.
Spada, dalla cottura perfetta, accompagnato da culatello, gel di aperol, melone e salsa al prezzemolo. Bocciato!
Anatra, cotta perfettamente (ça va sans dire), con salsa al carcadè, un eccellente purè, e un’indivia stupenda. Peccato per quel germoglio, nuovamente caduto sul piatto.
Tortino caldo al cioccolato, cocco, terra di cacao e punti di frutta.
La piccola pasticceria.
Il leprotto… andateci!