Il mare, l’orto, il chilometro zero, parole spesso abusate o usate a sproposito, ma nella baia di Nerano questi concetti sono sempre stati messi in atto senza annunci né proclami, ma con la concretezza che solo il lusso della consuetudine può dare.
Qui, a pochi passi dal mare, sorge la casa di Tonino e Rita Mellino, da qualche anno affiancati dai due figli Raffaele e Fabrizio.
La loro è una storia tipicamente italiana fatta di sacrifici, sudore e tanta voglia di imparare e di crescere senza compromessi, ma con un obiettivo ben chiaro: il benessere e la felicità del cliente.
La storia di una famiglia e di uno chef autodidatta, che attraverso la passione e l’amore per la buona tavola e i molti viaggi per il mondo (fatti per capire la cucina degli altri senza chiusure, ma con il desiderio di inseguire un sogno), è riuscito a creare un luogo magico, fortemente radicato nel territorio, amato trasversalmente da tutti: Vip e semplici amanti della buona cucina, accomunati dalla voglia di assaggiare i piatti che segnano il territorio come un marchio.
Il Locale, anno dopo anno, è sempre più accogliente, con belle camere, una sala da cui sembra di poter toccare il mare, un bellissimo giardino con lounge bar, e molti altri servizi che rendono unico questo posto.
La cucina di Tonino è semplice, dove al centro di tutto c’è il prodotto, e non potrebbe essere altrimenti, quando si vive e si lavora in una zona che regala una materia prima unica, e quando la freschezza è un dogma.
Il compito del cuoco capace, in questo caso, è soprattutto quello di valorizzare al massimo il prodotto, senza snaturarlo o nasconderlo con preparazioni troppo elaborate, e qui l’impresa sembra riuscita alla perfezione: i piatti escono puliti, pochi ingredienti, ben riconoscibili, cotture attente e sapori ben centrati.
I piatti della penisola e della cucina partenopea sono quasi tutti presenti anche se reinterpretati, attualizzati con cura e prestando attenzione anche all’estetica e alle proporzioni, senza però mai perdere di vista la centralità del gusto.
Non manca comunque qualche piatto moderatamente creativo, ma senza esagerazioni né voli pindarici.
Di buon livello e di discreta profondità, anche se di non grandissima personalità, la carta dei vini, che propone una buona selezione di etichette nazionali e non, ad un prezzo adeguato al contesto.
Un luogo ed un ristorante che ci sentiamo di consigliare sia per la cucina, ma anche -e soprattutto- per la magia di un luogo sospeso fra il cielo ed il mare.
Golosi panzerottini e montanare fritte.
Il pane da intingere nell’olio locale.
Intreccio di seppie, insalata tiepida di mare e crema di piselli.
Pernice rossa, lenticchie, broccoletti e grue di cacao.
Gnocco di agnello, salsa di piselli e tartufo nero.
Riso carnaroli, seppioline, fave, asparagi, caffè e arachidi.
Pesce in variazione di carciofi, salsa di menta e lemongrass.
Rollino al pistacchio, cremoso allo yogurt e sorbetto di lamponi.
Passerini, Passard, Partager, Pulp, Proseliti, Paris.
Termini apparentemente accomunati dalla sola iniziale. Ma con un filo conduttore importante e significativo.
Perché Giovanni Passerini è un po’ di tutto questo. Lo ricordiamo ancora, nell’estate di quasi dieci anni fa, alla porta del bistrot Uno e Bino di Roma, luogo che lo rese famoso ai gastronomi erranti, raccontarci come, a esami terminati alla facoltà di economia, decise che la sua strada non sarebbe stata quella di sedersi ad una scrivania di una banca qualsiasi. E volle diventare cuoco, contro tutto e tutti.
E poi la svolta, da noi incoraggiata in tempi non sospetti, di approdare a Parigi, proprio da quell’Alain Passard che ce lo ricorda tanto. Arrivato per uno stage di pochi mesi non se ne è più andato.
Passard e Passerini: similitudini di pulizia gustativa, di avanguardia nelle forme, nei modi di fare ristorazione e di cosa mettere nel piatto. Similitudine anche nel creare una vera e propria filosofia, nel saper insegnare senza essere maestri… con il gesto, con le idee.
E qui ecco il collegamento ai proseliti.
Che per un quarantenne al giro di boa sono già tanti. Più che proseliti o discepoli li identificherei come compagni di viaggio, che però hanno innegabilmente preso qualcosa, più di qualcosa, dal loro mentore. E mi riferisco a nomi del calibro di Simone Tondo, oggi a rivitalizzare l’ex La Gazzetta (ora “Tondo”) di Rue de Cotte, a Michele Farnesi del Dilia (il vecchio Roseval, sempre a Parigi) e a Jeremiah Stone del Contra di New York. Tutti passati dalle sue cucine, tutti grandi talenti che oggi mostrano il meglio di sé altrove.
Ma, come la “generation Passard”, con l’imprinting del mentore ben in evidenza. Tondo come Barbot? Stone come Bosi? Farnesi come Colagreco? Le premesse ci sono tutte… e ottime diremmo.
Personaggio non comune Giovanni Passerini, che unisce talento culinario a visione, avanguardia a sana capacità imprenditoriale, un filo di follia “pulp” a lucida e razionale precisione.
Ecco così nascere l’ennesima sfida. Dopo molto tempo dalla chiusura di Rino, bistrot di successo non venduto, non atteso al declino ma semplicemente chiuso. Tempo passato a riflettere, a vivere la vita, a respirare il profumo della libertà, per rigenerarsi. Ma anche passato a progettare, a pensare, a programmare.
L’apertura del pastificio, alcuni mesi or sono, è stato solo il primo passo in direzione di un progetto ambizioso.
Un bistrot che non è né italiano, né francese. È passeriniano, nuovo neologismo da tenere ben impresso nella mente. Un gioco di collaborazione virtuosa in cui la macelleria al piano di sotto serve per prendere animali, d’acqua o di terra poco importa, di grossa pezzatura, rigorosamente interi, che poi vengono lavorati per i clienti “à Partager”, in condivisione, con una spinta estrema verso la convivialità. E nell’annesso pastificio si lavora, egregiamente, il resto dell’animale per le paste ripiene, e viceversa si producono le basi per degli ottimi primi per il ristorante.
Innovazione nel modello di ristorante, conviviale e molto terreno, molto concreto, ma anche avanguardista e raffinato. Con un occhio attento ai conti e agli sfridi, per riciclare tutto. Idee apparentemente scontate, invero geniali.
Una cucina che fonde tecnica sopraffina alla riscoperta di un antico modo di mangiare, con condivisione, con allegria, con piatti sporchi ripuliti con la scarpetta. Golosità unita a raffinata eleganza e profondità, senza disdegnare qualche tocco di innovazione avanguardista.
Siamo solo agli inizi di un percorso, un grande percorso, che vedrà fare faville a questa idea e al suo creatore.
E già oggi Parigi, città tra le più adatte per questo esperimento, risponde con il costante pieno tutti i servizi. Sarà difficile sedersi a questa tavola ma provateci con tutte le vostre forze, ne vale davvero la pena.
Una vista alla cucina in miniatura.
L’ottimo compagno di viaggio.
Les plats à partager… pour 2, 3 o 4…
L’ottimo pane, della panetteria di fronte al ristorante.
Il Passerini creativo. Trippa, seppia, nero di seppia, nasturzio, menta, salsa di ortiche e pecorino. Un piatto da fondoscala!
‘A scarpetta… doverosa.
Gnudi di ricotta e granseola, acqua di pomodori, ciliegie e olio al fico: genial!
Pici ai peperoni arrostiti, anguilla e maggiorana.
Il rombo per 4?
…o l’anatra per 2?
Fantastica anatra cotta intera, perfettamente…
…accompagnata da gratin di finocchi al burro, fenomenale.
Crostini di interiora alle melanzane e cipolle…
…e insalata condita al fondo bruno.
Et voilà, le plat.
E gli ottimi residui.
Babà da manuale: con crema cruda, sorbetto di albicocche e olivello spinoso.
Il nome è magico: pare che la parola Abracadabra non sarebbe altro che una particolare trascrizione dell’originale Abraxàs.
Il luogo è, se possibile, ancora più magico: Campi Flegrei.
La zona che si estende a ovest di Napoli, oltre la collina di Posillipo e arriva fino a Capo Miseno. Luoghi di grande fascino, assolutamente poco sfruttati dal punto di vista turistico e di conseguenza poco conosciuti dal grande pubblico, eppure vi assicuriamo meritano di essere scoperti.
Territori sulfurei, vibranti, scolpiti da moti tellurici ed eruzioni vulcaniche. Qui, circondato da tre laghi, il lago di Fusaro, il lago d’Averno (dove secondo Omero e Virgilio si trovava l’ingresso agli Inferi) e il lago di Lucrino, troverete Abraxas.
Il patron, l’artefice di questo angolo di buon gusto, è Nando Salemme, appassionato gourmet e grande conoscitore dei prodotti del territorio. E’ lui che, più di dieci anni fa ormai, in una zona piena di discoteche e mega-locali da cerimonie, ha deciso di scommettere su qualcosa di radicalmente diverso.
Il locale si articola su due piani e gode di una suggestiva terrazza con affaccio sui laghi, davvero imperdibile nella bella stagione. L’atmosfera piacevolmente conviviale, i tavoli ben distanziati e il servizio rapido e informale contribuiscono a fare di Abraxas un posto dove si sta molto bene e si finisce sempre per tornare.
La cucina non è di mare, è cucina di terra. Più precisamente è cucina della terra. Di questa terra vulcanica, unica, i cui orti sono capaci di regalare prodotti che hanno pochi uguali in Italia.
Sarà sufficiente assaggiare la bruschetta con i pomodori del Piennolo per capire di cosa stiamo parlando. Pane cafone, olio extravergine, origano e i pomodorini più buoni del mondo. Semplicemente.
Ma qui sono imperdibili tutti gli antipasti serviti in numerose portate all’inizio del pasto, come è di usanza in zona. Una sequenza non banale con zucchine, melanzane, ortaggi fantastici a farla da padrone, e poi un favoloso casatiello.
Altro punto di forza della cucina sono i primi, perfettamente eseguiti, ricchissimi di sapore ma non per questo pesanti, e le carni alla brace della cui frollatura si occupa il patron in persona.
Non male i secondi “cucinati” (li definiamo così per distinguerli dalle ottime proposte alla brace) che però si rivelano un filo inferiori rispetto al resto.
Carta dei vini sufficientemente ampia in relazione alla tipologia di locale, con particolare attenzione ai vini del sud. Unica pecca è che più di un vino tra quelli in carta non era disponibile.
Abraxas si conferma una bella realtà ormai consolidata e di successo in una zona bellissima ma non facile. Complimenti a Nando Salemme e a tutta la sua squadra.
Fragranti Polpettine di zucchine in salsa Bernese.
Vitello tonnato con panzanella di verdurine.
La favolosa Bruschetta con i pomodori del piennolo.
Stracciata di melanzane.
Primosale di capra.
Notevole il casatiello.
Ottimi i Campotti di Gragnano (Pastificio Dei Campi) con pesce serra e fiori di zucca. Ad arricchire e ad ingentilire il piatto una chicca assoluta, fiocchi di Fabula, lo straordinario formaggio fresco di bufala del caseificio Il Casolare di Alvignano in provincia di Caserta.
Lussurioso e conditissimo il Sartù di riso con zucchine, provola e salsiccia su salsa al parmigiano. Riuscita rielaborazione di un grande classico.
Spezzatino di marchigiana brasato all’aglianico con purè di patate.
Polpette di scottona con mozzarella di bufala su foglia di limone.
Di ottimo livello la millefoglie scomposta alle fragoline che conclude il pasto.
Il nostro compagno di viaggio, uno dei più interessanti rossi campani da uve Pallagrello in prevalenza con piccole aggiunte di Casavecchia e Aglianico.
Prima del dessert ecco apparire, in una sorta di nemesi, la buatta. Tubetti di Gragnano al sugo di S. Marzano e Piennolo del Vesuvio con olio extravergine e basilico, all’interno della tradizionale latta dei pomodori, con tanto di etichetta. Basici.
Un gesto d’amore, un tributo alle origini, all’obbligatorio punto di partenza, volutamente in fondo ad una cena che sembrava aver appena messo tutto in discussione.
Una cena al ristorante dell’Hotel Romeo di Napoli è una esperienza complessa, ricca di rimandi, citazioni, suggestioni. In un certo senso, mentre sei intorno a quel tavolo come impilato in cima ai nove piani di stanze, con il nero della sala a dare continuità alla notte dietro i vetri, è come se tutto fosse sospeso. Occorreranno minuti, ore, forse anche giorni affinchè si comincino a decifrare tutti i segni. Uno alla volta.
La posizione intanto, emblematica, con giusto due corsie di asfalto a separare le pareti di vetro dalle banchine del porto, da sempre luogo letterario di scambio, contaminazione, libertà.
La cucina, senza il feticcio del chilometro zero, con l’acciaio del banco in bolla con l’orizzonte, l’unica linea che non confina spazi, l’idea più comune di infinito.
I piatti poi, che sembrano continui cambi di rotta, memorie, incursioni, matrimoni, quasi a ricordarci che talvolta la storia e la geografia si possono ripassare anche con coltello e forchetta tra le mani. E infine l’arte. Che con le sue schegge riveste pareti, ingombra pavimenti, traveste oggetti, incornicia i piatti, al punto da averle raccolte in un volume alto due dita da regalare agli ospiti affinchè ne abbiano conoscenza e memoria.
L’aperitivo iniziale gioca molto sui travestimenti di piccoli bocconi, elaborati ma dal gusto riconoscibile, immediato. Contrasti a tutta scala (acido-dolce-amaro) come la mozzarella che diviene sablè con un budino di melenzana e una marmellata di pomodoro, alterazioni di consistenze con la mousse di mortadella, il pistacchio fatto maionese e l’aceto balsamico in disco di gelatina ed anche deriva etnica come il raviolo nella vaporiera di bambù con ricotta fermentata e gel di piselli. Una elegante presentazione simultanea accompagnata da taralli e grissini, da una selezione di sali e pepi e da un olio (ravece) spalmabile.
Negli antipasti si comincia a delineare il percorso che affianca a questi virtuosismi tecnici una materia prima molto variegata. L’ideazione del piatto sembra concludersi sempre con una scelta puntuale e senza vincoli di ogni singolo ingrediente.
Ecco l’aceto di riso -puntellato da zenzero e pepe- a marinare lo sgombro ospitato all’interno di un tacos di mais realizzato con l’acqua di mare, ecco i piccoli asparagi sulla pietra lavica accelerati da una maionese di acciughe -giusto un accenno- e dalle uova di pesce volante, meno aggressive e dalla sapidità più contenuta di altre. Molto buoni i gamberi dove il sentore della brace e l’aroma della quinoa sono ripuliti dal finale pop del vino bianco con la pesca e una ghiacciata di basilico.
Si prosegue, e c’è un risotto di buona scuola, dall’impervio controllo di sapidità per l’abbinata cozza e limone salato (anche se forse avremmo preferito un cimento con la pasta secca) ed a seguire un bel merluzzo nero alle erbe, cotto perfettamente, sferzato dall’autorità del percebes.
Entrambi sembrano introdurre gradatamente i concetti che troveranno compimento nei secondi di carne, prima con la trilogia del piccione con petto, coscia ed un superbo collo ripieno di fegatini marinato all’anice, poi con l’animella in una glassa di soia e aceto con erbe di campo e quella giusta acidità della mela in chiusura.
Ma la vera deflagrazione arriva con il pollo e la sua zuppa chiamata all chicken, un grande concerto delle sue parti meno nobili (durelli, piedini, cuore e fegato) in una sorta di miso con funghi enoki e bottoni di canapa ripieni di kefir. Ovvero come realizzare un piatto elegante, complesso, di grande equilibrio e di forte impatto gustativo. Contemporaneamente.
Poi, dopo l’atterraggio con la buatta -pura verità- si torna in orbita tra le finzioni con l’uovo da bere con il centrifugato di pesca a fare il tuorlo e infine quello allevato a terra dove un guscio di isomalto protegge il cuore liquido per irrigare la terra delle fragole.
Un bel lavoro di squadra iniziato quattro anni prima, una ambiziosa idea di ristorazione in una città difficile, tanto più all’interno di un grande albergo. Una offerta gastronomica che, parafrasando l’immenso Bottura, è di tradizione sì, ma vista da dieci chilometri -o meglio miglia marine- di distanza.
Si sono voluti complicare la vita. Ed è ancora l’inizio.
La sala. Architettura, luci, design, arte.
Aperitivo. Taralli cotti al vapore con arachidi e sesamo tostato, Olio ravece spalmabile, Grissini ai semi, Polpettina di barbabietola con insalata russa, Sable di mozzarella con budino di melanzana e marmellata di corbarino, Tartelletta di Parmigiano con mortadella, Maionese di pistacchi e gelatina di balsamico, Riso soffiato al nero e puttanesca secca, Ravioli in doppia cottura con ricotta fermentata e gel di piselli.
Raviolo, particolare.
Tacos di acqua di mare e mais con sgombro arrosto marinato in aceto di riso, zenzero e pepe rosa.
Asparagi con maionese di acciughe, olive, capperi e uova di pesce volante.
Gamberi alla brace con insalatina di quinoa rossa, pesca e vino bianco, granita di basilico.
Risotto con curcuma, pomodorini gialli, limone salato e cozze.
All chicken: zuppa di pollo con durelli, piedini, cuore e fegato, funghi enoki, senape e bottoni di canapa ripieni di kefir e parmigiano.
Black cod con emulsioni di piselli ed erba di grano, sedano cotto in ghiaccio, percebes ed estratto di lime.
Piccione (petto, coscia e collo ripieno di fegatini) marinato all’anice con ibisco, pera e spinaci senapati.
Animella glassata con aceto e soia, crema di erbe di campo, mostarda e mela croccante.
‘A buatta: nella latta retrò della passata di pomodori, tubetti di Gragnano con sugo di S,Marzano e piennolo, olio evo e basilico.
L’ultima portata è poesia: il ritorno a casa.
Uovo da bere: acqua limonata e centrifugato di pesca.
Uovo allevato a terra. Ritorna il tema dell’uovo, quasi una ossessione per lo chef, questa volta in chiave dolce. Un guscio di isomalto nasconde.
Cremoso di nocciola con cioccolato affumicato e kamut soffiato.
I Macarons.
Il panorama sempre mutevole del porto turistico di Napoli.
Chi è Terry Giacomello?
È un cuoco, nello specifico lo chef del ristorante Inkiostro, locato a poche centinaia di metri dal casello dell’autostrada di Parma, lungo una via che accompagna al centro della città ducale.
Visto da una certa prospettiva, Terry Giacomello è esattamente questo. Analizzandone il profilo però, avvicinandosi alla sua visione d’insieme, cercando di interpretare la sua filosofia di cucina, forse Terry Giacomello non è solo questo.
Un curriculum sviluppato lavorando nelle più prestigiose case d’Europa: El Bulli di Ferran Adrià in primis, ma anche Michel Bras, Mugaritz e il Dom di San Paolo. Una vita peregrinante alla ricerca della perfetta fusione tra innovazione tecnologica e romantica rimembranza artigianale.
In una dicotomia difficilmente spiegabile, lo chef Terry Giacomello, approdato all’Inkiostro di Parma da ormai quasi un anno, si concede al cliente mostrando senza timore tutta la sua tecnica, inquadrata e sopraffina, riuscendo sempre nell’intento di raccontare storie di tradizione, andando a chiacchierare con toni golosi, grassi, rincuoranti, appartenenti al passato di ognuno.
È un cuoco vero Terry Giacomello, uno di quelli che si fatica ad immaginare in altre vesti.
Ma la sua funzione si spinge oltre l’operato quotidiano tra pentole e fornelli. In una perversione verso lo stravolgimento dei sensi, riesce a raccontare serenamente un territorio, quello emiliano, a lui avulso data l’origine friulana, rovesciandone consistenze e approccio sensoriale, regalando fuochi d’artificio palatali mai fini a se stessi, ricercando l’autenticità mnemonica in ogni singolo passaggio.
L’influenza del genio di Roses si fa sentire, ma non al punto di intaccare la natura creativa di Giacomello. Come uno studente particolarmente dotato infatti, nell’evoluzione del menù, ci si trova di fronte ad un’impressione che diviene velocemente certezza, che l’allievo abbia colto e tratto beneficio dagli insegnamenti del maestro, ma che la sua fame di sapere non si sia saziata, spingendolo quotidianamente a studiare nuove formule che poi declinerà sotto svariate forme di piacere.
In una parabola ascendente Giacomello propone piatti divenuti in pochissimo tempo “storici”, come la spirale di uovo cotta a freddo, albume montato e contrasti acidi e salati, che però cedono il passo, pur non sfigurando, a nuove creazioni, mirabili per impatto emotivo e profondità gustativa.
Il “ricordo di Cala Montjioi: variazione di molluschi e sapori iodati”, esplicito omaggio ad Adrià, è un trionfo di consistenze e sfumature di sapidità che si rincorrono senza mai incontrarsi, sfiorandosi e guardandosi da vicino, creando una commistione che irretisce il palato e la mente all’abbandono completo della moralità.
Il resto della degustazione è un’immersione completa nel mondo emiliano, in cui maiale, pasta e uova sono i tre elementi portanti in chiave gastronomica, nello specifico presentati sotto forme e consistenze nuove, ma mai snaturate dalla loro indole prandiale, necessaria e non banale considerazione per tracciare un percorso coerente che parte dalla tradizione e che ha come destinazione l’innovazione pura.
Tornando all’apertura quindi, rispondere alla domanda di chi sia Terry Giacomello, non è affatto cosa semplice.
È un artigiano che con tatto e raffinatezza propone una cucina territoriale vista attraverso le lenti di occhiali in 3D.
E’ un esponente di una delle cucine che hanno stravolto il modo di concepire la gastronomia mondiale.
È uno studioso attento e minuzioso.
È un esteta e un lavoratore ineccepibile.
Ma soprattutto è un cuoco che regala emozioni a chiunque faccia visita al ristorante Inkiostro di Parma, raccontando se stesso e la cucina della città con un vocabolario completamente nuovo.
La mise en place.
Gli amuse bouche.
Chips di pelle di baccalà; ramo di riso con polvere di riso nero; hamburger di parmigiano e foglia di alloro da succhiare.
Ostia di olio e sale di Maldon.
Soffice di patate, gnocchi liquidi di piselli, olio di prosciutto crudo. Piatto molto armonico, che gioca su toni dolci e delicati. Fondamentale e geniale l’apporto dell’olio di prosciutto crudo che allunga e verticalizza il piatto.
Asparagi, burro acido, primule, concentrato di alloro. Primo passaggio di assoluto livello. Una rincorsa di golosità, acidità e note amaricanti che si evolvono durante la masticazione boccone dopo boccone. Notevole.
Spirale d’uovo cotta a freddo, albume montato, contrasti acidi e piccanti. Un classico di Terry Giacomello.
Ricordo di Cala Montjioi: variazione di molluschi e sapori iodati. Semplicemente geniale.
Tagliolini di bianco d’uovo, crema di parmigiano, caviale di tartufo nero. Piatto golosissimo. La tradizione vista da una prospettiva che non avevamo ancora preso in considerazione.
Mezze maniche di brodo di prosciutto crudo, torta fritta, ristretto di aceto balsamico. Con questo passaggio Giacomello sfata un tabù: il rancido può essere spunto di riflessioni e può venire declinato creando emozioni palatali che non lasciano indifferenti. Altro passaggio che sa di tradizione pur presentandosi in una veste avveneristica.
Anguilla, yogurt al pimento, pomodoro d’albero, foglie insolite. Eccellente preparazione. Il pomodoro d’albero veicola, grazie alla sua succosità, l’alternanza di amaro e acido durante l’assaggio. L’anguilla dona un giusto apporto grasso. Piatto complesso ma molto diretto.
Castagnole di maiale, latte di cocco, fagioli neri. La castagnola è una ghiandola mandibolare del maiale. Piatto molto elegante. Ennesimo grande passaggio.
Spaghetto prosciutto e piselli. Un fuori menu. Provare per credere!
Il pre dessert.
Terra di sesamo, gelato alla gomma di acacia, fragola: ricordo d’infanzia.
La piccola pasticceria.