E’ sempre un grande piacere salire la scala, celata dietro la mitica porta rossa, che porta ai tavoli di questo bellissimo ristorante romano.
L’abilità che ha permesso ad Antonello Colonna di diventare un classico, grazie alla costanza che da sempre caratterizza il suo desco, unita al grande merito di aver sdoganato la cucina territoriale laziale rivisitandola e puntando su leggerezza ed eleganza formale, rendono questa splendida terrazza, interamente circondata dal vetro nel cuore del palazzo delle esposizioni, un appuntamento imperdibile per chiunque voglia regalarsi a Roma una serata all’insegna dell’estetica gastronomica.
Il comfort potrà essere suggellato in modo rilevante dalla istrionica presenza del vulcanico patron che al tavolo saprà, di volta in volta, consigliarvi per il meglio o affabularvi piacevolmente con progetti e didattici aneddoti, oltre che da un servizio solerte ed impeccabile coordinato con efficacia e understatement da Andrea Colonna, figlio dello chef.
Ormai ci troviamo davanti a un classico, capace di traghettare per primo nell’alta cucina ricette e ingredienti già pietre miliari di un territorio e di una storia fortemente sentiti.
Esempio di cui molti epigoni, con maggiore o minore successo, si sono avvalsi a partire dalle intuizioni che lui ha avuto venti e più anni fa.
Da lungo tempo lo chef divide la sua attività tra vari impegni, riuscendo comunque a mantenere un livello qualitativo elevato che non dissimula però, col trascorrere del tempo, un certo impasse nell’offerta, quasi un rallentamento che mal si addice alla sua ingegnosa vitalità.
Consolidare il proprio stile, frutto di anni di laborioso impegno, è pregio degno di grande considerazione; arricchirlo adeguatamente di nuovi stimoli sarebbe merito ancor maggiore e oggetto, eventualmente, di doverosa ammirazione.
La sensazione è che ci sia fermati a metà del guado, e che tutto ciò che potenzialmente era in divenire sia ora cristallizzato in una pausa, che ne rappresenta la condizione attuale.
Squisita la carbonara 2.0, ma francamente eccessiva è apparsa la salsa a specchio di pecorino che completa la corrispondente matriciana 2.0, riguardo alla quale, pur non essendo dei puristi, è impossibile non notare che il cacio ne dovrebbe rappresentare il corredo, e non l’elemento principale.
Allo stesso modo, alle squisite animelle con accattivante nuance al vermouth, che ne stempera l’importante grassezza, fa da contraltare il monocorde risotto, peraltro ben cotto, in cui la bottarga non crea l’auspicato contrasto o, ancora, alla tatin eseguita a regola d’arte fa seguito il fiordilatte al mascarpone, buono ma un po’ stucchevole, causa laccatura al limone che non incide come avrebbe dovuto e potuto.
Sono annotazioni queste che, comunque, non sminuiscono il valore generale di un indirizzo che a Roma rappresenta una vera e propria istituzione, affermatasi nel corso degli anni e depositaria di una meritatissima fama.
Amuse-bouche.
Vellutata di lenticchie e guancia di rana pescatrice.
Pane.
Hamburger di gamberi, bisque di crostacei e uovo marinato.
Animelle rosolate, salsa al vermouth e nocciole.
Negativo 2.0 di carbonara.
Risotto con brandade di baccalà, salsa pil pil e bottarga di tonno.
Negativo 2.0 di matriciana.
Tournedos di agnello.
Filetto di maiale, fegatelli e zucca in agrodolce.
Maialino croccante, patata affumicata e mostarda.
Predessert: cioccolato bianco, pasta sablèe e basilico.
Immancabile diplomatico crema e cioccolato con caramello al sale.
Soufflèe con gelato alla vaniglia e cioccolato.
Fiordilatte al mascarpone laccato al limone con coulis al lampone.
Tatin di mele con gelato alla cannella.
Lampone e cioccolato….
Petit fours.
Un gran Champagne.
La sottostante terrazza per i brunch.
La -davvero mitica- porta rossa.