Cosa succede quando un grande pizzaiolo d’olteoceano, Roberto Caporuscio, proprietario della famosissima pizzeria Kestè di New York, e il suo maestro Antonio Starita, terza generazione dell’omonima rinomata pizzeria Partenopea, aprono un nuovo locale a New York City?
Succede che il successo è assicurato, confortato da una qualità espressa, con elevati numeri, a ritmi che solo nella grande Mela si riescono a trovare.
Eh sì, perché qui si può fare qualità, grande qualità, coniugata a numeri di tutto rispetto. Ed in questo locale, aperto nei dintorni del distretto di Broadway, il successo è tale che c’è la fila costante per sedersi a questi tavoli. A meno che, come noi, vi rechiate a cena alle 18, complice il fuso e un pre-teatro, allora avrete anche la domenica sera la possibilità di accomodarvi senza grossa fatica.
Tavoli che girano con il ritmo di una slot machine, serviti però in maniera puntuale e precisa da un servizio solerte e competente, seppur veloce. Una pizza Neapolitan style, con lievitazione ed impasto a dir poco perfetti, deliziosa anche se paragonata alle migliori in Italia. Complimenti davvero. Un degno accompagnamento iniziale di sfiziosità partenopee, dolci basici, birra e vino di buona qualità (birra Baladin, per citarne una) ed un ottimo Cocktail Bar annesso alla pizzeria, per ingannare piacevolmente l’attesa.
That’s New York City, fantastic!
sfiziosità partenopee iniziali
Pizza racchetta, con tasca ripiena di ricotta e verdure.
La margherita Starita style, con mozzarella home made.
Una panna cotta New York style.
Giovane, caotico, informale, divertente. Poco “milanese” (nel senso gastronomicamente deteriore del termine), dinamico perché pieno di alti e bassi, un po’ perché appena aperto, un po’ forse perché davvero non hanno ancora deciso cosa fare da grandi. Comunque interessante, non scontato, ma certamente da provare.
Ma andiamo con ordine.
Si chiama Spice, anche se mentre scriviamo (a oltre 2 mesi dall’apertura) è ancora presente l’insegna del precedente locale. Si trova alle Colonne di San Lorenzo, nella Milano da bere, bella zona ma dal parcheggio improbabile.
Lo chef, patron e animatore è il tatuatissimo Misha Sukyas, milanese di origini armene con esperienze in mezzo mondo da Londra all’Australia, dall’Olanda all’Indonesia passando per la Cina. Ultima esperienza a Milano, all’Alchimista.
Il menu, ridotto a pranzo e più articolato la sera, cambia ogni giorno a conferma della dinamicità che caratterizza il posto. La cucina si rivela subito tutt’altro che banale.
È un melting pot, ricco di spezie, di sapori pieni, diversi. Ma allo stesso tempo con radici classiche, anche francesi, piuttosto salde.
Cucina non troppo leggera per ingredienti e per cotture, ma che non ci ha dato alcun problema nel “post”; a tratti aspra, mai dolce, non sempre facile ma mai difficilissima, indubbiamente interessante.
Cucina di burro, di salse elaborate, diretta, non propriamente ipocalorica e quindi per niente omologata agli standard salutistico-dietetici oggi imperanti, soprattutto nella patria della moda.
Una sfida di successo. A pranzo, in particolare, funziona perfettamente la formula tre portate a 15 euro, per cui il locale è sempre pieno, vista anche l’alta concentrazione di uffici in zona.
La sera il menù cambia e diventa più ricco, ma non cambia la filosofia della cucina, né dell’accoglienza, sempre simpaticamente informale e alla mano.
Certo, non tutto è perfetto, e alcune cose ci sono sembrate onestamente incomprensibili, quasi a rafforzare lo spirito un po’ anarchico del locale.
E così, della parmigiana di melanzane in carta a fine novembre con 4 gradi all’esterno ne avremmo fatto volentieri a meno. Così come della tritatina verde (di prezzemolo & affini) su ogni piatto, fatta eccezione per il dolce.
Degna di un film di Bunuel la surreale mini carta dei vini, che in circa 15 etichette spazia dal Cremant d’Alsace biodinamico di Pierre Frick al blend Sangiovese/Merlot base di Banfi. Difficile, onestamente, trovare un filo logico, ma ad oggi tant’è. E va bene così.
Il fatto è che si esce con la voglia di tornare. E questo è un indizio -assai indicativo- di qualcosa di buono.
Cuochi al lavoro.
Spuma di patate e cozze. Alla base una parmentier molto buona, buone le cozze, nota agrumata, bella acidità.
Risotto uva e taleggio assai ben fatto.
Spago al nero e salsa di astice. Piatto impegnativo, aspro, salsa al burro densa arricchita dal contenuto della testa degli astici. Non banale.
Cervo dolceforte e patata al limone.
Polpettine di salsiccia in bisque di astice.
Molto, molto buono il dessert: un cannellone di grano duro fritto e ripieno di cassata e n’duja.
Un grande cuoco è certamente colui che crea una cucina personale, con molta tecnica celata ma al contempo efficace, con idee originali e centralità gustativa, non dimentichiamolo, ai massimi livelli.
Un grande cuoco però si vede anche alla prova del nove, ovvero quando deve, nel solco della tradizione più spinta, far esprimere uno o più ingredienti al meglio. Con tecniche e manualità classica, perchè nulla è più da inventare.
Ricordo ancora nitidamente il racconto che mi fece il compianto e mai troppo ricordato Stefano Bonilli, in merito alla sua prima spedizione a Cala Montjoi. Era ancora il secolo scorso e Ferran Adrià, forse il più grande cuoco di questo secolo, accolse la sparuta truppa giunta in missione dall’Italia con una cena, memorabile a detta dei partecipanti, a base di grandi classici francesi.
Nello stupore e nell’incredulità di tutti, a fine cena, il maestro catalano disse : “Stasera vi ho dimostrato che sono un cuoco e so cucinare, domani vedrete quanto questa conoscenza mi sia servita a creare innovazione”.
Ebbene si, un grande cuoco si vede anche alla prova sui temi classici. E ad Alba cosa c’è di più classico che la valorizzazione, in chiave moderna s’intende, di un ingrediente principe di langa come il Tartufo?
Ecco quindi Enrico Crippa alla prova con l’esaltazione e la sublimazione del divin Tubero: iniziamo col dire che l’obiettivo è stato colpito ed affondato. In questo lungo percorso non mancano citazioni, rimandi, riflessioni anche storiche e molti luoghi comuni sfatati. Il primo, che racconta dell’esaltazione del tartufo attraverso il veicolo del calore, posto sotto al prezioso tubero. Vero, ma solo in parte. La realtà, anche provata dalla scienza alimentare, è che il veicolo per gusto e profumo migliore per il tartufo è il freddo, o il tiepido, ben calibrato. Più che il caldo.
E in questo caso la classe, l’esperienza e le grandi capacità del cuoco Crippa sono saltate fuori alla grande. Piatti originali, ben pensati, ottimamente eseguiti, con una gestione di proporzioni e temperature che sfiora il maniacale. Tutti quanti tra il perfetto e l’ottimo.
I nostri preferiti? L’albese, il capriolo e il molto discusso al tavolo, ma a nostro avviso migliore, riso al cardamomo e tartufo. Un concentrato di eleganza in cui il cardamomo, e la tiepida temperatura del riso, amplificava ed esaltava il divin pregiato.
Chapeau a questa sequenza, dando spazio alle foto, ogni piatto fotografato con e senza Tartufo…
Il protagonista della giornata.
La sequenza, forse fintanto eccessiva, dei fantastici amuse bouche.
Noce e tartufo bianco.
Nocciola e tartufo.
Fantastico ragout di coniglio e polenta, come rendere un classico un piatto di alta cucina d’autore.
Capesante, purea di radici. Un piatto in cui la temperatura, oltre che gli abbinamenti, giocano un ruolo chiave.
La sublime albese, davvero fantastica.
Merluzzo e Zucca.
L’ormai classico crema di patate e Lapsang Souchong.
Animelle e bietole.
Straordinario riso e cardamomo.
Plin in fonduta.
Capriolo e foie gras.
E il suo secondo servizio.
I vuoti dell’impegnativa giornata…
…e un fantastico fine pranzo.
I colori della vigna.
Un rinfrescante cocktail.
I saluti finali.
Mela campanina.
L’arrivederci.
Ogni giorno, da quasi ottant’anni, un numero non indifferente di persone passa dalla pittoresca “Pignasecca”, cuore pulsante di Napoli, per provare una delle più rinomate pizze della città.
Da Attilio, neanche il tempo di terminare l’ultimo spicchio del soffice disco, molti clienti, soprattutto stranieri, sentono la nostalgia di voler tornare, tanto che alcuni lasciano il proprio ricordo cimentandosi a disegnare o scrivere una dedica sui tovaglioli di carta. I più significativi sono appesi lì, alle pareti di una delle due minuscole e caratteristiche salette che si sviluppano in lunghezza tra il forno, all’ingresso, e la cucina, all’estremità.
Oltre a questi cimeli, si scorgono ritagli di giornali in tutte le lingue del mondo, foto di personaggi importanti, premi e tanto altro. Basta tutto ciò a rendere suggestivo questo pezzo di storia partenopea.
Ma c’è anche una grande pizza che attende l’avventore. Una tra le più importanti in città, in termini di evoluzione tecnica ed alleggerimento della tradizione.
Attilio Bachetti, nipote del fondatore, ha apportato grandi novità e proseguito con estrema dedizione e passione la creatura del nonno.
Lavorando sugli impasti -che lievitano naturalmente riposando per almeno 24 ore- ha reso più digeribile la pizza della casa, pur non abbandonando il gusto tradizionale della verace napoletana. Una pizza soffice al centro e con cornicione ben lievitato sono la base di ingredienti che non lasciano spazio ad improvvisazione e indifferenza.
La pizza Carnevale, che nasce dalla rivisitazione della lasagna di carnevale napoletana, è un must.
A forma di stella con le punte farcite di una notevole ricotta a creare un’alternanza di grassa dolcezza e delicata acidità con la dolce salsa di pomodoro, e poi l’equilibrata sapidità della salsiccia, del formaggio e del fiordilatte. Considerata la pietra filosofale della ormai arcinota pizza a stella preparata in tutto il mondo.
Nella Natalina, con baccalà fritto (eccellente la qualità del pesce, sebbene sia un peccato che sia sfuggita qualche spina di troppo), scarola, olive, pomodorini del piennolo, aglio e capperi -il cui nome prende spunto dal baccalà fritto che si mangia a Natale nelle case dei napoletani-, in cui si sente il profondo gusto della tradizione.
Eccellente anche la (o “il”?) crocchè di patate e provola affumicata. Compatta e croccantissima la panatura, armonioso e ben distribuito il ripieno. Nel caso siate particolarmente famelici, non perdete il “crocchettone” con provola salsiccia e friarielli!
Servizio accogliente e di estrema cortesia, ovviamente a conduzione familiare per proseguire una tradizione nata nel 1938, che macina coperti come se fosse un chiosco di street food. In effetti Da Attilio è anche una rinomata friggitoria nonché uno dei punti di riferimento per le pizze a portafoglio, per le frittatine di pasta e per i famosi “bacetti”, preparati da Attilio, ovvero rotolini di pasta di pizza con ricotta, pepe,noce moscata, rucola e provola.
Una piccola lista di vini campani e qualche birra (anche artigianale) accompagna il pasto.
Il forno e il pizzaiolo.
In preparazione la famosa Carnevale.
Crocchè di patate e provola.
All’interno la provola filante.
Dal menu scorgiamo la famosa…
Pizza Carnevale: “otto punte ripiene di ricotta, fior di latte, pomodoro, salsiccia e formaggio”.
L’impasto è davvero ben lievitato e la cottura al forno a legna pressappoco perfetta.
Meno umida e più consistente la pizza Natalina che, come detto, pecca soltanto nel diliscamento del baccalà.
Uno dei quadretti appesi ai muri.
Gli interni.
Ingresso su via Pignasecca.
Non si parlerà mai abbastanza dei Fratelli Roscioli.
Del loro successo imprenditoriale, delle loro scelte illuminate, anticipando ogni tendenza nel campo della ristorazione, della qualità che riescono a raggiungere e mantenere giorno dopo giorno.
Un panificio che è semplicemente uno dei migliori d’Italia.
E poi la salumeria Roscioli, locale modernissimo, davvero cosmopolita, eppure italiano fino al midollo.
Una formula che non ha lasciato spazio a superficialità, che ha curato ogni dettaglio per mettere d’accordo tutti, tanto il gourmet quanto il cliente comune, per fare grandi numeri e grandi incassi pur mantenendo un livello qualitativo altissimo.
Parliamo di sala, ad esempio. Quanti ristoranti in Italia si possono permettere di tenere due professionisti del livello di Valerio Capriotti e Maurizio Paparello? Rispondiamo noi: pochissimi.
In quanti altri locali si possono fare più di 100 coperti a sera con questi standard?
Dove avere il non plus ultra in tema di formaggi e salumi e poi ritrovare in carta una pasta burro e parmigiano da commozione? Che coraggio, che convinzione nei propri mezzi ci vuole per mettere in menù una pasta in bianco così?
Questo per sottolineare che Roscioli non è solo selezione di ingredienti, il “manico” in cucina non manca e si dimostra soprattutto nei primi piatti (non è un mistero che la carbonara Roscioli sia considerata una delle migliori). Merito di Nabil Hadj Hassen, il cuoco della corazzata di via dei Giubbonari.
Amore per la semplicità, sempre e comunque.
Si potrebbe obiettare che tutto questo ha un costo, molto (a volte troppo) elevato: ma è il mercato che fa il prezzo, e qui, lo abbiamo già sottolineato, non si bada a spese per rifinire i dettagli.
Ecco, se proprio dovessimo dare un segnale, ci piacerebbe che la stupenda carta dei vini mostrasse dei ricarichi più bassi, anche nella logica del tipo di locale in cui ci si trova: che meraviglia sarebbe poter cenare accompagnando queste stupende portate con una delle grandi bottiglie presenti nella sterminata cantina? Ci piacerebbe una carta vini che invogliasse a stappare anche cose importanti, una di quelle in cui l’appassionato si getterebbe a capofitto.
Dettagli che renderebbero il quadro perfetto.
Intanto qui si procede a passo velocissimo: Roscioli continua ad essere il locale da non mancare mai, per nessun motivo, in caso di vacanza romana.
Divertimento assicurato.
Prosciutto di manzo asturiano “Cecina de Leon”condito con olio extra vergine, limone e pepe di Sarawak.
Joselito Gran Riserva.
Culatello Spigaroli, Pancetta di Grigio del Casentino, salame di cinta senese, lonza di Noire de Bigorre, lombetto di Sauris.
Di più non sapremmo…
Mortadella, riccioli di Parmigiano vacche rosse 36 mesi e cialda di pane croccante.
La burrata pugliese con le alici del mar Cantabrico R. Peña.
La mozzarella di bufala con pomodorini semisecchi di Pachino.
Salmone: norvegese affumicato con frassino, leggermente marinato con aneto.
Burro e Parmigiano: rigatone con burro echirè “demi-sel”, Parmigiano di vacche rosse 36 mesi e Parmigiano di bruna alpina 30 mesi.
La carbonara: spaghettone con guanciale artigianale, pepe nero malesiano, uova di Paolo Parisi e Pecorino romano dop.
Le polpette della tradizione romana: polpette di carne con pomodoro, riccioli di ricotta fresca affumicata e polentina di castagne (50% farina di semola e 50% farina di castagne)
Formaggio Testun. Paradiso.
Tarte Tatin e gelato alla vaniglia
Il fantastico panettone cioccolato e pere del forno Roscioli.
Chiusura.
I vini proposti da Valerio Capriotti: