Il tavolo in cucina? Storia vecchia. All’Aqua Crua hanno messo la cucina tra i tavoli.
Eh sì, la prima cosa che colpisce entrando è proprio l’originalità (e la bellezza) del contesto. La separazione tra sala e cucina c’è, ma non c’è.
Tutto dona un’impressione di fluidità, di movimento. L’arredamento è virato sul design, il minimalismo, l’essenzialità, lo spettacolo della brigata in cucina vale da solo il prezzo del biglietto.
La seconda cosa che colpisce è l’omaggio al Maestro. A cui non è dedicato semplicemente un piatto. Ma l’intero menu. All’inizio del quale si legge: “Dedicato al mio amico e maestro Massimiliano Alajmo”.
Si, Giuliano Baldessari non è propriamente quello che definiremmo un cuoco autodidatta.
Ha un bel curriculum che racconta, tra l’altro, anche di due anni presso il maestro del suo maestro, quel Marc Veyrat sommo giocoliere del gusto. Proprio in Francia Baldessari conobbe Alajmo, di cui poi è stato braccio destro a Le Calandre per circa dieci anni.
Quindi, due anni fa la scelta di aprire il suo ristorante: Aqua Crua, restaurando un vecchio edificio nel centro di Barbarano Vicentino.
Già nel nome la sua filosofia di cucina: un richiamo alla essenzialità, alla centralità dell’Ingrediente, al rifiuto del superfluo. Da sempre punti fermi della cucina di Alajmo.
Il Menu è tutt’altro che esteso, e consiste in una carta unica con un percorso degustazione fisso da 6 portate (di cui una, che per semplicità definiremmo il “secondo”, a scelta normalmente tra pesce o carne), dal quale si possono estrapolare i singoli piatti per ordinare alla carta.
A questo si aggiungono una piccola carta di dessert, una piccola degustazione di formaggi e tre piatti pensati per vegani, vegetariani e intolleranti al glutine.
Poco sopra citavamo Marc Veyrat e Massimiliano Alajmo. Il gioco, l’importanza dell’elemento ludico nel piatto.
E il nostro percorso inizia proprio così.
Il Trespolo, tre assaggi dove nulla è ciò che sembra.
A seguire Sembra Pasta ma in realtà è sedano rapa.
La Mozzarella, poi, nasconde all’interno un inaspettato cuore di pomodoro liquido.
La perizia tecnica c’è tutta. E onestamente la cosa non sorprende. Potenzialmente Baldessari può fare cose davvero importanti. Non ha i limiti che, salvo poche eccezioni (che confermano la regola), hanno i cuochi autodidatti.
La sua cucina già oggi riesce ad essere intellettualmente interessante e appagante al palato.
Con al centro l’ingrediente. Una cucina che predilige cotture brevi, delicate, a volte “semplici” marinature e che non disdegna l’utilizzo di elementi crudi.
E poi le spezie, protagoniste in più di un piatto a regalare aromaticità.
E un sapiente uso dei toni acidi come nel piatto denominato Il Giappone: brodo di carbone e Katsuobushi, gnocco di seppia con purea acida di patate, tartufo nero e nocciole di Cuneo.
Molti anche gli ingredienti esotici a regalare una nota fusion, estremamente moderna: curry, katsuobushi, paprica affumicata, lucuma e quindi il sapiente uso di alcuni elementi feticcio della cucina de Le Calandre quali i capperi e la polvere di caffè.
Piccoli appunti: qualche piatto che, a nostro giudizio, potrebbe essere esteticamente ripensato e il dessert buonissimo, ma difficile da mangiare con quei lunghissimi tentacoli di mela.
Quanto al conto, nella nostra precedente visita ci aveva colpito il rapporto qualità prezzo veramente interessante, e un anno dopo notiamo che il prezzo si è adeguato alla qualità dell’offerta. Nulla di male, per carità, anzi, scelta obbligata ci ha confessato lo chef.
Quello che più conta è che ora sta al bravo Baldessari compiere quel passo in avanti verso una cucina che sia più personale ed originale, e meno evocativa di trascorse esperienze.
Immaginiamo non sia facile, in quanto dopo dieci anni la cucina di Alajmo era diventata la sua cucina. Ma le cose facili le lasciamo ai cuochi normali non a chi prospetticamente ci pare destinato ad entrare nel mondo dei… grandi.
L’omaggio ad Alajmo.
Trespolo: panino con bratwurst vegetale e maionese all’albume, sembra bresaola (ma è pomodoro) con rucola e grana, patè rochè (di fegato) con cuore croccante al curry.
Mozzarella con ripieno di pomodoro liquido.
Il Giappone: alla base brodo di carbone e Katsuobushi, gnocco di seppia con purea acida di patate all’interno, tartufo nero e nocciole di Cuneo. Acidità.
L’Osso buco:battuta di carne di capra, all’interno dell’osso vi è una crema di garusoli. Cremosità.
IlRimboccato: raviolo aperto fatto con una pasta di malto d’orzo, sopra una cruditè di astice, capperi, riduzione di caffè e tuorlo d’uovo disidratato. Aromaticità.
Il Risotto: Riso carnaroli mantecato con acqua di mare e succo d’arancia, pepe di Maricha, artemisia e capasante. Piccantezza.
Ricciola: ricciola marinata in acqua di mare, servita con Tamarindo, paprica affumicata, liquirizia e pan fritto.Sapidità.
Pre Dessert: sorbetto Gin&Tonic alla rapa rossa con polvere di lucuma e menta variegata. Freschezza.
Lo Strudel: alla base una crema alla vaniglia con un ristretto di limone, uva passa intinta nella grappa, polvere di grano arso e mele coltivate da Giuliano. Dolceamaro.
Illusione d’argento: cioccolato gianduia ricoperto da una sfoglia d’argento.
La bella cucina a vista.
L’hotel Arts è molto più di un semplice hotel.
Costruito tra il 1988 e il 1992 all’entrata del Port Olímpic di Barcellona, nel complesso sviluppato per i Giochi olimpici del 1992, questo 5 stelle lusso di proprietà del gruppo Ritz-Carlton è diventato una vera e propria icona della città catalana.
Con i suoi 45 piani per 154 metri di altezza, svetta sullo skyline di Barcellona e caratterizza in maniera inequivocabile la zona del Porto Olimpico.
Progettato dallo Studio Skidmore, Owings and Merrill, ma in particolare dall’architetto Bruce Graham, che ha scelto giustamente il vetro come materiale principe, avvolgendo poi il grattacielo in una struttura metallica bianca.
483 stanze con vista sulla città o sul mare, tra cui 56 executive suites, una Arts suite, una Mediterranean Suite, 26 Appartamenti che occupano gli ultimi 9 piani, una Royal Suite e una Presidential Suite.
Sono ovviamente da scegliere le camere con vista sul mare, il vero valore aggiunto di questo splendido albergo.
In camera: televisione e stereo Bang & Olufsen, ampio bagno con vasca e doccia, angolo relax, utilizzo gratuito della macchina del caffè Nespresso.
Disponibile anche il servizio “Club Level”, con un concierge e una club lounge dedicata con una offerta culinaria durante tutta la giornata.
Sono presenti 5 diversi ristoranti, tra cui spiccano il ristorante “Enoteca” , affidato allo chef Paco Perez del ristorante Miramar di Llança, e il ristorante Arola, dell’ononimo chef.
Fiore all’occhiello la SPA al 43° piano, tutt’altro che ampia, ma con una vista unica sul mare e tutta la città di Barcellona.
Giardino, piscina all’aperto, palestra con attrezzi Technogym aperta 24h/24h, Casinò… non manca davvero niente a questo albergo.
Il grande pesce in acciaio color bronzo (Peix d’Or), opera di Frank O. Gehry, è un altro degli elementi emblematici del contesto dell’edificio: meraviglioso in particolare al tramonto, quando la luce crea dei bellissimi riflessi sulla superficie della scultura.
Se dovessimo indicare un difetto strutturale, segnaleremmo la mancanza di una vera e propria spaziosa hall di ingresso (l’entrata al primo piano è solo un passaggio per l’ascensore).
Ma il difetto maggiore è il costo degli extra: in una struttura con camere a queste fasce di prezzo, è veramente inspiegabile far pagare il wi-fi (25 euro al giorno!) o una bottiglia d’acqua in camera 14 euro.
Dettagli che non intaccano comunque il livello generale, davvero di altissimo profilo.
L’ingresso al piano terra.
Il lungo corridoio dove si trova la conciergerie.
Gli spazi comuni sono ricchi di fiori.
…e opere d’arte.
La camera.
La tv e lo stereo sono Bang & Olufsen.
Macchina e caffè Nespresso a disposizione gratis.
I costosissimi extra.
Bagno con doccia e vasca.
Kit di cortesia.
Controlli dal comodino di fianco al letto.
Il pezzo forte della camera: la vista.
La SPA all’ultimo piano: piccola ma con una vista unica.
L’idromassaggio.
Zona relax.
Sauna.
La vista dalla terrazza della SPA.
La piscina vista dall’alto.
Ottima la colazione, sia per la parte dolce che per quella salata.
Uova alla Benedict.
Crepe.
Cioccolata e churros.
Pasticceria.
Cappuccino a regola d’arte.
“Ritrovarsi
in un luogo, sempre uguale e sempre diverso
nella Sicilia e nei suoi piatti
nelle tradizioni Mediterranee
nel nostro orto
nel pescato quotidiano
nei sapori perduti
nella cultura e nel gusto
nelle storie che possiamo assaggiare”.
La tenuta Capofaro, fiabesco resort immerso nella vigna della Malvasia, esclusivo ed unico nella sua identità, è un posto che entra nell’anima. Qui il tempo sembra fermarsi.
Nel progetto gastronomico di questo luogo, etico ed eco sostenibile, traspaiono le peculiarità di un territorio e l’anima di una famiglia di storici viticoltori, quella dei Tasca d’Almerita.
Dopo diverse consulenze di rinomati cuochi, la famiglia Tasca ha deciso di puntare tutto su Ludovico De Vivo, salernitano di origine, che nel suo recente passato ha girato il mondo, reduce da importanti stage presso il Noma e il Fat Duck.
De Vivo, trasferitosi in pianta stabile nella meravigliosa Salina (aveva già fatto parte dello staff di questa cucina nel 2012), ha un approccio filosofico e filologico al progetto, mostrandosi più come un veicolatore che un manipolatore della materia.
Al centro della cucina ci sono i prodotti eoliani e della Sicilia intera.
Tra profumi di salsedine, la simmetria dei vigneti e la profondità del mare, De Vivo porta in tavola una materia prima selezionata con rigore e preparata per dar vita ad una cucina essenziale, saldamente ancorata alla tradizione isolana.
Predominano gli ortaggi (gran parte auto coltivati), il pescato da lenza e crostacei di ottima qualità.
La compiutezza e l’equilibrio di alcune preparazioni si alternano ad abbinamenti meno accattivanti in cui la persistenza e la lunghezza gustativa non sono sempre costanti. Date le indiscutibili doti tecniche, la qualità del prodotto e una buona dose di personalità della cucina, è lecito aspettarsi di più e siamo sicuri che in futuro questa tavola riserverà piacevoli sorprese.
Il ristorante è aperto anche a pranzo, con proposte più semplici ma sempre di qualità, che sottostanno alle regole del mercato e, pertanto, cambiano giornalmente.
Si cena e si pranza sempre e solo all’aperto, sotto il pergolato che ospita i tavoli, in un’atmosfera intima e rilassante, tra il brusio del “frutto più nobile delle Isole Eolie” e della natura circostante.
Unica pecca da registrare è nel servizio, con il personale assolutamente cordiale ma che, a sala piena, va un po’ in difficoltà.
Infine, è doveroso registrare una certa rigidità nella scelta del menu degustazione, servito tassativamente soltanto per tutto il tavolo ed in ogni caso per un minimo di due persone.
Pani, focacce e grissini, molto buoni.
Burro all’olio d’oliva. Un esercizio tecnico già reperito in diverse tavole al Sud, ma comunque gradito.
Il benvenuto dello chef: ricciola cruda e champignon.
Gambero crudo, yogurt acido, maionese ai ricci e crumble salato al pistacchio (poco pervenuto quest’ultimo).
Tonno crudo, cipolla rossa agrodolce, capperi e more. Ottima materia prima bilanciatissima con tutto il resto.
Spaghetti, ricci di mare e mollica. Non memorabile.
Filetto di dentice, finocchi, agrumi e olive verdi. Ancora un pescato di assoluto livello.
Filetto di manzo, crema di melanzane, gel di pomodoro e verdurine dell’orto. Cottura perfetta e concentrazione gustativa di rilievo. Unica scelta discutibile è l’utilizzo dei piselli nella stagione estiva.
Tartare di melone mista, tè freddo al gelsomino e sorbetto di anguria.
Olio, cioccolato e sale. Ganache mantecata con olio d’oliva, rocher di cioccolato amaro, gelato al cioccolato (72%), fiocchi di sale Mothia e mirtilli.
Un tavolo della sala.
Nuove sfide.
Le uniche in grado di spazzar via la monotonia e scrollare di dosso la polvere della stabilità, della sicurezza, della routine.
Lo straordinario che diviene il nuovo, non in quanto favoloso bensì inteso come non-ordinario, in senso letterale.
Rimettersi in gioco: aria nuova, nuovi confronti, scommesse azzardate.
Arrampicarsi faticosamente in cima e, una volta raggiunta la vetta, spazzare via tutto per ricominciare, per tentare di tornare ancora più in alto.
Che sia una forma di lucida follia? Può darsi, certamente ci vuole un briciolo di irrazionalità e, comunque, tanto coraggio. Un vero e proprio sport estremo, nascosto nelle pieghe dell’ordinario.
Yoji Tokuyoshi in cima ci è arrivato, passo dopo passo, a piccoli passi. Nove anni trascorsi tra routine, perfezionismo, ripetitività e testardaggine. Un lavoro come tanti il suo, non fatto come tanti ma meglio di tutti, fianco a fianco dello chef del momento. Per questo, una delle posizioni probabilmente più invidiate nel settore: secondo di Massimo Bottura in Osteria Francescana. Colui che, in assenza del leader Maximo, dirige le cucine di uno tra i migliori ristoranti sull’ecumene terrestre, il ristorante che ha riscritto le pagine della gastronomia italiana degli ultimi anni. Anni di fatiche, certo, di sforzi, di sudore, vissuti non da stagista capitato nel periodo fortunato ma da asse portante, da ruota sterzante del carro.
Fatiche ripagate da un vero e proprio trionfo unanime di critica, pubblico e parere di colleghi.
Poi un bel giorno ti svegli e, come un fulmine a ciel sereno, decidi che non è più tempo.
Basta così.
Nonostante l’altissimo livello, forse la vita da “secondo” inizia a stare stretta. Cancellato tutto, si ricomincia da zero. Un nuovo ristorante, dove metterci la faccia, il nome, e assumersi la totalità degli oneri, dei fardelli che una scelta del genere porta con sé, con benefici, certo, ma soprattutto con rischi, talvolta, anche altissimi.
Ma del resto, “chi lascia la strada vecchia per la nuova…”
Un adagio popolare, che mal si addice alla straordinarietà tuttavia, in questo come in molti altri casi, serba un pizzico di verità.
Nove anni in un team d’elite, ai comandi di una macchina vincente, forgiano una mentalità indiscutibilmente vincente e un approccio, forse, di beata sicumera. Ma, dura lex valida per tutti i campioni, è necessario che la totalità dei tasselli siano al posto giusto per continuare a primeggiare, ed è per questo che questo nuovo attore della cucina contemporanea italiana, a tratti, sembra vacillare.
In via San Calocero, a Milano, risiede oggi indubbiamente un campione, che non riesce però ad esprimersi come tale in quanto le condizioni per farlo, ancora, non ci sono.
È per questo che la cucina di Tokuyoshi è, tuttora, un continuo e inesorabile richiamo alla Francescana, una continua e indefinita citazione sul filo che separa la forma mentis dal plagio; e infatti, se molte delle piccole idee, come germogli, a Modena trovavano terreno fertile per divenire grandissimi piatti, a Milano rimangono in stato embrionale, soffocati dalla carenza di terra e acqua.
Un continuo toboga in bilico tra sottocoppia e fuorigiri, con piatti che giungono in tavola portando in dote temperature incorrette, carenze di contrasti, deficit di concentrazioni o ridondanze evidenti intervallati ad altri nettamente più risolti e compiuti, che mostrano chiaro e limpido l’ingombrante background di colui che li ha pensati ed eseguiti.
Come un germoglio in stato di sofferenza, Yoji sembra risentire della mancanza di un team affiatato, in grado di affermarsi come tale durante tutta la sintassi del pasto, in tutti quei passaggi che dividono l’idea dal piatto perfetto: è per questo che, al momento, questa tavola fatica a trovare -e a mantenere- tanto la rotta quanto la velocità di crociera.
Può un grande Secondo diventare un grande Chef? Certamente, a patto però che si ripristinino tutte le condizioni di partenza, perché il solo background rischia di restare una fondamenta priva di sostanza.
Come un pregiato tondino d’acciaio, che rimane tale senza la presenza degli indispensabili acqua e sabbia necessari per divenire cemento armato.
Gli Appetizer, che seguono la scelta del menù.
Nel nostro caso quello più ampio (chiamato “Sensazioni”, con un evidente richiamo al suo maestro), che negli otto mesi dall’apertura ad oggi è già stato ritoccato verso l’alto nel prezzo, da 80 a 100 Euro.
“Bruschetta di canocchie”.
Piatto essenziale, che risente della non rilevante qualità della canocchia. Decisamente migliore il brodo di crostacei in accompagnamento, concentrato e carico di umami, da bere in chiusura.
La prima bottiglia, per iniziare.
“Cannolicchi nel porro”.
Piatto goloso, che però trova a fatica un punto d’incontro tra la natura filamentosa del porro e quella gommosa del cannolicchio. Nemmeno la concentrata salsa di caciucco, versata a finire il piatto, riesce a creare una doverosa amalgama.
“Sarde bruciate non bruciate”
Pregevole la presentazione (nonostante “l’ispirazione” evidente, tanto nello stile quanto nel nome), che utilizza la tecnica Gyotaku per la stampa della testa del pesce sul piatto. Peccato che il riscontro al palato sia alquanto basilare, ovvero poco altro che un filetto di pesce, nulla più nulla meno.
“Scampi a merenda”.
Uno scampo, tagliato longitudinalmente e unto con dell’olio siciliano, farcito con del mascarpone all’interno del carapace. Vista l’esiguità e la difficoltà di estrazione del formaggio, all’atto pratico uno scampo all’olio. Evidente inoltre l’eccesso di grassezze e la carenza di contrasti.
Il secondo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina.
“Lumache & Anguille nella vigna”
Ci risiamo: ispirazione evidente oltre ogni spiegazione, tanto nel nome quanto nell’impiatto, purtroppo non nel risultato finale. Fungo, anguilla, lumaca, salsa, foglie, lardo di Colonnata: oltre alla ridondanza, ogni ingrediente prende una strada differente dagli altri, senza mai raggiungere una fusione auspicabile.
“Risotto alla milanese sempre croccante”
Altro giro, altra… ispirazione: piatto molto, molto simile ad uno del 2011 già provato a Modena. In ogni caso, qua il passo cambia, la portata si rivela piacevole, golosa e divertente.
Riso all’olio con pelle di pomodoro.
Altro piatto ben riuscito, rivolto prettamente verso le note dolci ma equilibrato e piacevole. Cottura magistrale del riso e ottima mantecatura.
Il terzo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina (no, non è un maldestro copia-incolla non corretto dal vino precedente).
“Piccione”.
Il piatto della serata: davvero eccellente, con il piacevolissimo contrasto tra lo jus e la nota pungente-piccante del rafano.
Praticamente inutile invece il dolce bicchierino di succo di pomodoro, servito a parte, in quanto non complementare al piatto.
Il predessert: meringa, erba fungo, zafferano.
Il dessert, “Cemento e Terra”.
Dolce molto, molto buono, dallo stile moderno ma gradevole e sostanzioso. Meringa al carbone vegetale, gelato al topinambur, mascarpone, crumble salato al cacao.
Il bancone ereditato da Wicky’s, il predecessore. Chiedete espressamente di volervici sedere all’atto della prenotazione, se gradite.
Curiosi dettagli all’ingresso.
Una cucina tra le più francesi che ci è capitato di incontrare. Tecnica espressa nelle cotture, negli abbinamenti e nel rigore delle realizzazioni: i piatti di Berton trasudano precisione maniacale.
E’ evidente, anche ad un occhio non proprio allenato, quanto queste preparazioni siano frutto di studio attento e meticoloso. Piatti pensati e realizzati da uno degli chef che, a nostra personale memoria, non ha mai commesso il benché minimo errore di esecuzione. Non una salsa ossidata, non una cottura troppo pronunciata, non un abbinamento non consono e coerente.
Ecco quindi scaturire creature affascinanti, molto belle da vedere ma al contempo anche con validi riscontri palatali. Raffinati i sapori, rispettati i prodotti e gli ingredienti. Sapori che si rincorrono e che sussurrano sottili nel piatto, mai urlati ed ostentati. Ecco, se vogliamo trovare una similitudine ancor più marcata con i cugini d’Oltralpe, questa cucina è la degna rappresentazione di quella filologica tendenza del classicismo francese, genericamente riconosciuto, verso la perfezione stilistica e tecnica e la delicata armonia tra i sapori. Nessun urlo, solo piccoli sussurri. A tratti quasi una ossessiva ricerca estetica e una manieristica concentrazione sulla forma. Una parte, a noi cara, del perfezionismo Giapponese, non solo Francese.
Anche quando ci si trova di fronte ad abbinamenti, come nei conchiglioni con Achillea, Rafano, Lime e Zenzero, decisamente ingombranti, in cui è molto più facile un fuori giri, uno squilibrio, una dissonanza. Ed invece il grande tecnico e preciso Berton qui trova la quadratura, riuscendo a sussurrare e a non far prevalere nessuno di questi elementi.
Così come nella triglia, in cui evidenzia una cottura di magistrale bravura, accostata ad una maionese di mela e senape e ad un sedano cotto in boullion da rabbrividire. Anche qui con gli elementi apparentemente di contrasto che stanno al loro posto, senza invadere.
Una cucina a tratti quasi schiva e delicata, timida e riflessiva. Che però non trova nell’imperfezione stilistica, nell’errore ruvido e strabordante, il fascino imperioso e leggiadro dell’imprecisione. Voluta e ricercata, a tratti espressione folle e geniale, in alcuni (o molti) casi puro delirio gustativo.
Che appare evidente e si propone di stordire il commensale lasciandolo perplesso, con un paio di passaggi che fanno intravedere tutte le potenzialità che, oltre alla tecnica e alla precisione, possono connotare il talento di questo cuoco. Ci riferiamo, ad esempio, al rognone con maionese al pepe, riduzione di vino ai frutti rossi, caviale di salmone, salsa di vitello alla verbena.
Un cuoco senza le solide basi e la cifra culturale di Berton avrebbe creato un putiferio. Ed invece qui, nitido e persistente, esce tutto il talento e tutta la capacità fino a quel punto inespressa. O meglio dire trattenuta, ci è parso. Una sensazione che diminuisce con i piatti, e con l’intero menù, denominato “brodi”. In cui forse Berton esprime un ardire ed una temerarietà che gli fa toccare vette superiori.
Ne comprendiamo in parte le logiche, conosciamo la clientela e cosa i palati oggi cercano, ma ciononostante siamo altrettanto convinti che la spinta sull’acceleratore di questa cucina gioverebbe anche ai numeri e alla stilistica di questo ristorante, piuttosto che il contrario.
Il benvenuto…
…arricchito da bon bon di yogurt e cetriolo, cialda di zucca e castagne, spugna alla paprica e cardamomo.
Il granciporro in foglia di indivia, con erbe e lemongrass, brunoise di verdure e bisque di granciporro.
Il pane, ottimo.
Conchiglioni con achillea, rafano, lime e fondo di vitello e zenzero. Equilibrio difficile centrato, gusto intenso e persistente.
Triglia al vapore, sedano, salsa di senape e mele.
Porro, aglio nero, crema di mandorle e patate.
Il piatto meno convincente, troppo armonico, con gli ingredienti di accompagnamento che invece di alzare e amplificare il gusto del porro lo mortificano leggermente.
Stupendo agnello da latte con crema di patate fritte e bietoline.
L’imperioso rognone con maionese al pepe, riduzione di vino e frutti rossi, fondo di vitello alla verbena, uova di salmone. Chapeau!
Polentina morbida, fonduta di grana padano, tartufo bianco.
Il Moscow mule, come predessert.
Cioccolato areato, liquirizia e gelato alla menta.
L’uovo cioccolato bianco e mango. Un grande esercizio tecnico, ma dal risultato gustativo al di sotto delle aspettative.
Piccola pasticceria.