Una volta varcata la soglia di questo accogliente e raccolto locale al Flaminio, interessante quartiere dove sono dislocati alcuni degli indirizzi culturalmente più importanti di Roma (come l’Auditorium e il Maxxi), non potrebbe esserci equivoco maggiore che aspettarsi una cucina di matrice orientale o in qualche modo orientaleggiante.
Noda Kotaro, da tanti anni in Italia, è il classico esempio di affinità elettiva quasi totale per la civiltà enogastronomica di un paese altro dal proprio.
Non conoscendolo di persona, solo un attento lavoro di detection, e non certo una scorsa del menù, potrebbe infatti rivelarne l’origine nipponica, essendo egli profondamente calato in tradizione e territorio laziali.
Dapprima, infatti, in quel di Viterbo alla Torre, e poi, da qualche anno, nella realtà romana, l’immedesimazione, pressochè zelighiana, dello chef nell’ambiente e negli umori di cui è intrisa la realtà gastronomica che lo circonda è di fatto totale.
Vero è, d’altro canto, che a Roma bisogna fare di necessità virtù e un ristorante che non annoveri nel suo menù gricia, carbonara o amatriciana tenderà a incontrare molta difficoltà nell’intercettare i favori di una clientela che definire conservatrice sarebbe un garbato eufemismo.
Lo chef se ne è dato per inteso e nella sua carta non mancano le personali versioni di questi cavalli di battaglia della gastronomia regionale.
E’ altrettanto possibile, però, affidandosi magari al degustazione per un’ampia panoramica, conoscere e apprezzare piatti che, partendo da ricette fortemente istituzionalizzate, ne vedono una loro versione alleggerita e affinata.
Nessuna folgorante intuizione, nessuna trovata trascendentale ma buon senso e levità, applicati con profitto, sono il vademecum costante di un percorso che presenta pietanze come il delicato e leggero pesto di fagiolini e seppie o l’ottimo salmone sapientemente marinato nel koji corredato da una crema fresca, pur se troppo poco densa, a base di yogurth e olio alla menta.
La personale interpretazione del territorio da parte dello chef presenta anche alcune preparazioni certamente gustose ma alquanto scolastiche come la panzanella con pil pil di baccalà e maionese al basilico, l’onesta porchetta con coppa, crema di bieta e mela marinata al vino rosso o l’ennesima e superflua rivisitazione della caprese.
La sensazione finale, comunque, è quella di trovarsi di fronte a un profondo conoscitore della gastronomia locale nonché un bravo esecutore e ad alcuni guizzi, come l’eccellente brodo che accompagna i lombrichelli, un cioccolatino ripieno di fragola di ottima fattura nella variazione di cioccolato bianco o il già menzionato salmone, lasciano intravedere quelle potenzialità che permettono serenamente di arrotondare il voto per eccesso.
Panini di pecorino e pepe e pane carasau.
Ottimo pane.
Caprese rivisitata: gelatina di acqua di pomodoro, salsa di basilico, spuma di mozzarella, foglia di shiso.
Gelato di ostriche, centrifuga di mela verde, sedano e zenzero con lime candito.
Panzanella con baccalà, pil pil, maionese di basilico, pomodorini alla vodka e olio di basilico.
Uova strapazzate, polvere di gamberi, succo di rapa rossa fermentata, gamberi rosa crudi, soncino, prugne fermentate.
Lombrichelli, vongole, verdure e katsuoboshi.
Fusillone, pesto e fagiolini con seppie marinate.
Salmone marinato nel koji, giardiniera e crema di yogurth con olio alla menta.
Porchetta, coppa, mela marinata al vino rosso e disidratata, crema di bieta e pane.
Gelato alla vaniglia.
Variazioni di cioccolato bianco: in polvere, squisito cioccolatino ripieno di fragola liquida, panna cotta ai fiori di sambuco, sorbetto di pera e meringhe allo yuzu.
Crumble di nocciole, pesca sciroppata, mousse di caramello, sorbetto alla pesca, cialda di latte e camomilla, dolce poco significativo.
Petit four.
Un grande Timorasso.
La sala.