L’Hotel de la Ville di Monza è, oltre che uno tra i pochi Small Luxury Hotel lombardi, un pezzo di storia dell’alto milanese o, se preferite, della operosa brianza.
Nasce ai primi dell’800 come solo ristorante e, all’inizio del ‘900, diventa albergo con il nome di Eden Hotel Savoia. Un doppio omaggio: anzitutto alla Casa Savoia, che nel 1859 trasformò la Villa Reale, di fronte all’hotel, nella sua residenza estiva, quindi alla bellezza paradisiaca del suo parco di 700 ettari (Versailles è di “solo” 250!), considerato, nel XIX secolo, il più grande parco cintato d’Europa.
A fine anni ’50 Bartolomeo Nardi rileva la gestione dell’albergo, ribattezzato Hotel de la Ville, e l’attuale seconda generazione, i due figli del capostipite, hanno contribuito a rendere questo albergo un piccolo gioiello di stile che può fregiarsi di numerosi riconoscimenti internazionali e che risponde, secondo noi, al motto del “luxe, calme e volupté” tanto caro ai cugini d’oltralpe.
Purtroppo in Italia, a differenza dei succitati francesi, è difficile che in dimore di questo tipo si possa anche avere una esperienza culinaria interessante. Ed invece, ecco qui la sorpresa: curati gli arredi, curati i particolari e molto curata anche la cucina.
La proprietà ha investito molto in questa direzione, non lesinando affatto sulla qualità degli ingredienti acquistati, tutti di primissimo ordine, e consegnando le chiavi della cucina ad un giovane cresciuto qui negli ultimi 15 anni che, oltretutto, ha padronanza di ciò che si aspetta la clientela di questo albergo.
Ecco quindi uscire dalla cucina ingredienti straordinari nobilitati e niente affatto mortificati. Preparazioni semplici, moderatamente creative, ma di impatto gustativo e di qualità veramente elevata.
Un plauso alla proprietà, i fratelli Nardi, che hanno creato un team di tutto rispetto, capitanato in sala dal Maitre Roberto Brioschi che ha a disposizione per i propri ospiti una grande cantina a prezzi tutto sommato onesti per il contesto.
Una interessante conferma che vi invitiamo a scoprire… muovendovi tra le boiserie e le argenterie di questo classico dell’accoglienza brianzola.
Ottimo cous cous di cavolfiore, crema di cavolfiore (forse troppa) con verdure del mercato, agrumi e gambero rosso di Mazara: un inizio con il botto.
Tartare di Fassona della macelleria Oberto, trucioli di foie gras d’anatra e chutney, troppo dolce, di ananas.
Ottimo riso Carnaroli Riserva San Massimo, aromatizzato al lime, lattuga di mare e ventresca di tonno rosso.
Ottima cotoletta alla milanese: panure e cottura perfette.
I filetti di Oberto.
Un buon babà.
E per finire, spaghettoni Benedetto Cavalieri alle uova di spada e trucioli di pane alle erbe: fenomenali.
Divertente: in questa unica e semplice parola si potrebbe racchiudere il Tickets.
E non crediate sia poca cosa, che sia un aggettivo sminuente per il lavoro che viene fatto qui: un’attività ristorativa che sa divertire il cliente, ha in mano le chiavi del successo.
Ed infatti il pubblico qui non manca, mai.
Nonostante i turni multipli, nonostante le difficoltà di prenotazione (l’apertura delle stesse avviene solo due mesi prima della data, e alle 00.01 i posti vengono bruciati in poche ore, con il sito web in tilt quasi sistematicamente), nonostante tutto: locale sempre e inesorabilmente pieno.
E questo apre uno spunto di riflessione sulle capacità imprenditoriali dei fratelli Adrià, che non solo hanno saputo rivoluzionare la storia della gastronomia, ma contemporaneamente sono riusciti probabilmente anche a fare un pozzo di soldi, circondandosi di soci illuminati e realizzando idee quasi sempre vincenti.
Si possono fare tanti soldi con la qualità: date un’occhiata qui dentro, e provate a fare un rapido calcolo di quale possa essere l’incasso settimanale.
La genialità la si coglie anche nel modo in cui viene data forma alle idee: Tickets è indubbiamente l’evoluzione gourmet del Tapas Bar, una taperia con il vestito della festa, colorato, bello e luccicante, studiato in maniera millimetrica per piacere e fare parlare di sé.
Ma non è l’unico locale di questo tipo di Barcellona, in altri hanno cercato di rendere più modaiolo quello che a Barcellona è più uno “state of mind” che un modo di mangiare.
Ma l’unicità, la chiave del successo, è che Tickets, in questa sua evoluzione, non ha perso l’anima del Tapas Bar, non ne ha perso l’essenza. Che è fatta di amici, di convivialità, di libertà, di bevute anarchiche passando andata e ritorno da cocktail a vino, a birra, di comande sempre troppo corte o sempre troppo lunghe, di aggiunte, di cancellazioni, di “porta pure tanto non rimane sul tavolo”, di confusione di gusti e sapori, di innamoramenti gustativi e profonde delusioni. Il Tapas bar ci concede di tornare bambini per due ore, di mangiare con le mani, di prendere qualcosa dal piatto del vicino, di spezzare i conformismi.
In un tapas bar c’è tutto un mondo, al Tickets anche di più.
I riferimenti al mondo di Alice, al Circo, ai cartoni animati vanno tutti in questa direzione: una ambientazione al limite del kitsch, eppure stranamente piacevole e azzeccata anche quando volutamente eccede.
A tutto questo è dovuto numeretto lì in alto, all’inizio della recensione: forse c’è solo qualche preparazione che valga quel numero, o forse no.
Ma questo posto è unico.
E noi ci torneremmo ancora, e ancora, e ancora.
Che teste questi Adrià…
Il locale si sviluppa in diverse aree di lavorazione: crudi, salumi, piatti caldi.
La carta delle bevande si presenta così:
Un Mojito favoloso, giusto per scaldare i motori.
Le olive del Tickets: nel nostro caso, varietà Gordal, con cannella, anice stellato, pepe nero e buccia di limone.
Jamón Ibérico Joselito Gran Riserva.
Pane e pomodoro, semplice e immancabile. Per chiarire meglio il concetto, per capire come la qualità si basi sui dettagli: questo è il pane al pomodoro più buono che troverete girando per tapas bar.
Rubia gallega in un Air Baguette: grande classico che merita tutta la sua fama.
Tonno in cornetto di alga nori: assemblato al tavolo. Stupefacente la profondità gustativa.
Ventresca di tonno, grasso di prosciutto e caviale: come si può spiegare una cosa come questa se non definendola capolavoro? Noi giriamo locali per cose come questa. Da lacrime. E da bis, ovviamente.
Ostriche!
Viaggio a Parigi: con aceto di vino al dragoncello.
Viaggio a Barcellona: con brodo caldo di pesce. Molto interessante.
Pomodoro e pomodoro: acqua di pomodoro, cuore di pomodoro, crema di mais e huacatay.
Polpo croccante e piparra (un tipo di peperoncino) sottaceto: polpo impanato con panko, bietola fermentata.
Anche questo ha richiesto il bis, senza nessuna discussione tra i commensali.
Pollo marinato, aria di lime, pane imbevuto nel suo succo di cottura.
Gamberi al carbone.
Accompagnati da una salsa olandese e da brodo di pesce.
Salsicce e seppioline, mare e montagna: la tradizione attuale. Spettacolo.
Per i dessert ci si può spostare in un’altra sala, decisamente “singolare”.
Il soffitto…
Le preparazioni.
Alle pareti video famosi…
Al Tickets i cucchiaini crescono sugli alberi.
La singolare carta dei dessert.
I Dessert sono tecnicamente perfetti, ma gustativamente non hanno la complessità della parte salata.
La Rosa, sfera di litchi e fragola con gelatina di acqua di rosa.
Air-pancake, spuma di yogurt, wafer caramellizzato, sciroppo d’acero e composta di ribes nero.
Cono di carota, yogurt al cardamomo, sesamo, gelato di mango e carota.
Éclair al cioccolato, nocciole e royaltine.
Millefoglie verticale coon una base di cioccolato, crema di burro di nocciole e fragoline di bosco.
Il cheese cake di Tickets: crema di formaggio “coulommiers”, cioccolato bianco, nocciola e frolla.
La ristorazione nei luoghi deputati alla balneazione, specie se tarata su grandi numeri, è spesso considerata un doveroso complemento, un orpello -dalla qualità spesso approssimativa- all’offerta generale fatta a chi viene per trascorrere una giornata in spiaggia.
Non sfugge a questo quadro il litorale di Fregene, frazione di Fiumicino, dove lidi e mangiatoie si dispongono senza soluzione di continuità su una costa gettonatissima dai romani in cerca di sollazzo e refrigerio.
Non tutti però hanno questa equivoca concezione del concetto di ristorante e qualcuno cerca di proporre qualcosa di diverso sia nella forma che nella sostanza.
Rosario Malapena, all’interno del rinomato lido Albos club, da alcuni anni ormai, ha intrapreso un percorso che lo porta a distinguersi dall’uniforme piattezza che lo circonda.
Al primo piano della costruzione anni cinquanta, a pranzo, e ancor più la sera al tramonto nel periodo estivo, è infatti possibile godere, in primis, di un bel ristorante, dominato dalla luce, tutto nei toni di un elegante bianco, dalle doghe del pavimento, alle pareti, fino alle ampie finestre che proiettando la vista sul mare regalano grande appagamento per gli occhi.
Poi, per quanto riguarda la cucina, ci si trova davanti a ottima conoscenza e capacità di approvvigionamento del materiale ittico che lo chef offre ai suoi clienti preservandone rispettosamente le caratteristiche.
Nei piatti, pienamente al servizio di ottima materia prima, sono presenti pochi fronzoli, affidati per lo più al menù scritto vezzosamente a mano.
Le pietanze elencate sono limitate essendo legate alla mutevole disponibilità del mercato e non sarà, quindi, una cattiva idea quella di affidarsi a uno dei tre menù degustazione presenti in carta.
Arriveranno antipasti crudi di livello e ben eseguite preparazioni come il padellotto di cozze o le gustose alicette fritte che sono di buon auspicio per il prosieguo della cena.
Quando però le pietanze necessitano di una più approfondita conoscenza della tecnica i risultati lasciano più a desiderare, vedi la salsa non concentratissima che accompagna la semplice insalata del pescatore, la panatura poco accurata del merluzzo, l’eccessiva semplicità, quasi naif, di alcuni contorni o la fattura della crema che guarnisce la millefoglie.
Il pasto resta comunque piacevole e soddisfacente, allietato da un servizio cordiale e attento e dalla possibilità di scegliere da una carta dei vini molto ricca su cui spicca un elenco di champagne davvero encomiabile.
Carpaccio di baccalà e cipolla caramellata.
Tartufi di mare e ostriche Gillardeau.
Gambero gobbetto, gambero viola e scampo.
Insalata del pescatore con salsa alle carote.
Alicette fritte.
Padellotto di cozze.
Caprese scomposta al Samaroli e triglia fritta.
Merluzzo su panatura aromatica all’aceto di riso e sakè su crema di melanzane.
Spaghetto con cernia, olive e mandorle tostate
Leone di mare alla griglia con battuto di pomodori.
Millefoglie.
Semifreddo al pistacchio su salsa di caffè e mandorle tostate.
Ricotta e pere.
Frutta.
Petit fours.
Una grande bottiglia.
Interno.
Ingresso.
Vessilli.
Abbiamo atteso un ragionevole lasso di tempo prima di venire a trovare Viviana Varese qui, nella sua nuova sede al terzo piano di Eataly Smeraldo, consci degli sconvolgimenti che un trasloco del genere può comportare.
Una location davvero d’effetto, un grande salto rispetto alla minuscola vetrina affacciata in via Adige, sede storica da dove è partita la favola di Alice.
Alice che ora sembra proprio essere approdata nel paese delle meraviglie, qui all’interno dello store più chiacchierato in città, sicuramente luogo di perdizione per tutti i foodies, milanesi e non.
Nonostante l’ingresso avvenga attraverso il negozio, i due ambienti rimangono totalmente separati. Una volta varcata la porta che li divide, ci si accorge subito che dal punto di vista progettuale proprio nulla è stato lasciato al caso. Splendida la cucina, affacciata maestosamente sulla sala che, grazie all’intera facciata a vetri, a pranzo gode di un’eccezionale luminosità. Notevole anche l’arredamento del locale, così come l’allestimento dei tavoli e l’imponente social-table al centro, senza dimenticare la magnifica vista su piazza XXV aprile, da poco restaurata. Non ultimo la bella cantina a vista, completamente rinnovata e arricchita rispetto al passato.
Aumentando le ambizioni, anche il personale è ovviamente cresciuto nel numero, tanto in cucina quanto in sala, ove fin dai primi momenti si nota un servizio dal livello sensibilmente migliorato.
Per quanto concerne invece la cucina, la Chef ha da sempre la fortuna di disporre di una materia prima di alta qualità, selezionata dall’abile Sandra che, negli anni, è sempre riuscita a mantenere standard elevati. Materia elaborata poi dalla Varese e dal suo imprinting caratteristico, sempre presente in tutti i suoi piatti. Nel tempo ha saputo parametrare e dosare al meglio i gusti e le sapidità degli stessi, riuscendo a trovare un equilibrio più che accettabile. Ulteriore caratteristica della cucina della Chef è l’aspetto cromatico, protagonista assoluto di tutto il menù di Alice: il colore la fa da padrone, grazie anche alle onnipresenti frutta e verdura, in ogni creazione.
Ma, come diceva il grande Marchesi, un piatto oltre che bello deve essere anche buono, e qui purtroppo non riusciamo a trovarci sempre in sintonia con il pensiero della chef, non senza un pizzico di rammarico perché, inizialmente, molti dei piatti in carta paiono interessanti, ma non si riveleranno tali una volta materializzati in tavola.
E ciò è un vero peccato, soprattutto perché una materia prima di tale qualità meriterebbe una maggiore valorizzazione, che non vuol necessariamente dire sovraccaricare un piatto di ingredienti anzi, al contrario, spesso è bene cercare di esaltare l’elemento principale, attraverso l’uso chirurgico di ingredienti accessori, atti a farlo risaltare.
Non solo sovrabbondanza di ingredienti ma anche di porzioni, che spesso ci sono sembrate esagerate, tanto che non sempre siamo riusciti a terminarle.
Se abbiamo trovato interessante, ad esempio, il tributo a Marchesi nel menù, con il raviolo aperto rivisitato, non possiamo dire lo stesso per altri piatti, ispirati anch’essi ad altri grandi maestri della cucina, spesso dall’interpretazione non particolarmente azzeccata o compiuta.
Ci auguriamo che con il tempo Viviana ritrovi quella completezza -di pensiero e gustativa- che ancora, a nostro avviso, le manca. Probabilmente sarà necessario mettere da parte quel pizzico di “voglia di strafare” chiaramente percepibile nei piatti, comprensibilmente causata dall’ambizioso salto e dalla relativa pressione mediatica e sovraesposizione al pubblico, per tornare a cercare in primis di valorizzare la materia, senza compiacimento alcuno.
Siamo certi che, attraverso la medesima determinazione che l’ha portata insieme a Sandra fin qui, non le sarà difficile ottenere dei tangibili miglioramenti nel breve. Attualmente non ci è possibile affermarlo ma, se i passi avanti fatti per ambiente, sala e servizio avverranno anche in cucina, il futuro di Alice non potrà che essere… meraviglioso.
Mise en place e vista globale del locale.
Il pane, molto buono.
Amuse-bouche: pacchero fritto con mousse di parmigiano ed erba cipollina, frittelle di pasta cresciuta di salicornia, hummus di semi di sesamo e ceci, bouquet di insalate con crema di pistacchio e granella di pistacchio.
Passion: ostrica con centrifugato di cetriolo, granita di mela verde e sfere di panna acida e frutto della passione ghiacciati.
Apertura niente male, con un bel gioco acidità e di temperature a dare il via alle danze.
Che-li-amo: astice intero alla catalana con variazione di pomodori, salsa di peperone, spuma di acqua di pomodoro.
Uno dei piatti che ci è piaciuto di più.
Tonno subito: carpaccio di fassona con tonnata, insalatine aromatiche, verdure all’agro e capperi.
Questo invece è un piatto che non ci ha convinto molto: troppo abbondante la porzione, con le verdure, tagliate grossolanamente, che andavano a coprire completamente la carne, senza trovare un legame.
Quadro di pasta: insalata di riquadri di pasta con pesce, crostacei, verdure fresche e sottaceti.
Questo è il piatto che ci è piaciuto meno di tutti, che purtroppo proprio non funziona. Gli ingredienti restano completamente slegati fra di loro, rendendo difficile anche solo terminare il piatto.
Verde brillante: linguine ai ricci di mare con burro di manteca, clorofilla di prezzemolo e peperoncino.
Bello e buono, questa è la Varese che piace a noi. Attenzione solo a non sporcarvi… è un attimo.
Sotto l’ombra di un ravanello: trancio di ombrina con centrifugato di ravanello, salsa di yogurt, crema di barbabietola, lardo di cinta senese battuto.
Non male anche se forse qui ci sarebbe voluto un piatto con un guizzo in più, ma soprattutto qualche ingrediente in meno.
L’albicocca in un campo di mais: gelato al mais, chicchi di mais affumicato, salsa e spugna all’albicocca, albicocca semi candita e pop corn caramellati.
Benché possa sembrare, in prima lettura, un dessert pesante, si rivelerà invece un piatto gradevole e rinfrescante.
Mela al mirtillo, ananas al lampone e pera al passion fruit.
Non sempre quello che mangi è ciò che sembra: un bel gioco di fine pasto, di chiara ispirazione Alajmo.
Ristorazione Eroica.
L’abbiamo citata anche in altre occasioni, ma in questo caso è un’affermazione quantomai centrata. Trovare una somma di talenti così nitidi ed evidenti, non solo in cucina, che vogliono fare ristorazione di qualità in una situazione a dir poco sfavorevole è raro. Gli Sposito sono da premiare, già solo per questo. E da incoraggiare, in continuazione, inondando la loro tavola di appassionati.
Ma ciò non basterebbe, e non sarebbe bastato anche a tutti gli avventori, professionisti del settore e non, che hanno tessuto le lodi di questo ristorante, a ragione veduta. Perchè è innegabile che Francesco Sposito è uno dei più chiari e limpidi talenti che la nostra cucina ha sfornato negli ultimi anni. Ed ha al suo fianco un fratello, Mario, ed uno staff, gentile e cortese, che non hanno nulla da invidiare al talento del giovane cuoco di Brusciano.
Un team perfetto, affabile, preparato. Che esprime una cultura culinaria ed un’arte dell’accoglienza davvero rare.
E poi c’è la cucina di Francesco. Tecnica, colta, raffinata ed elegante. Sempre sussurrata, mai troppo esasperata, ma costantemente golosa e persistente.
Come un grande vino, sicuramente francese.
Forse l’unica nota che ci sentiamo di muovere è proprio questa: la connotazione di una cucina che è molto internazionale, e di stampo filo-francese.
Nel nostro percorso a mano libera, il più importante presente nella carta e quindi il più indicativo, abbiamo trovato in questo caso pochi riferimenti alla terra di origine rispetto a quanti ce ne saremmo aspettati.
Ma ciononostante siamo rimasti inebriati e piacevolmente cullati dalle rotondità e dall’armonia di queste preparazioni, tutte giocate sul filo millimetrico di tecnica e gusto.
Il punto più alto raggiunto è stato certamente il duo astice-spaghetti e anguilla. Uno sfoggio di tecnica estrema, da grade table francese, con una centralità gustativa ed una persistenza davvero notevoli.
Due piatti che rimarranno a lungo nella nostra memoria come esempio di grande cucina.
Senza poi contare tutti gli altri passaggi del percorso, senza mai una sbavatura o una ridondanza, senza mai una cottura fuori posto o una ossidazione eccessiva. Tecnica sopraffina e gusto in primo piano, con eleganza da vendere.
Da tempi non sospetti parliamo degli Sposito e del loro ristorante come uno dei luoghi più interessanti, innovativi ed effervescenti del nostro benamato Sud. E ci sentiamo di confermarlo ancora una volta, con forza e decisione.
Il benvenuto: forse l’unico appunto che si sentiamo di fare è relativo alla staticità della proposta. In ogni caso, nulla meno che ottimo!
Fragrante cialda di riso e alghe.
Foie Gras, cacao, purea di fichi d’india e pepe di Sichuan. Ottimo l’equilibrio, anche se per il periodo (l’estate) e il luogo non ci è parsa una partenza indovinata.
Il babà grigliato in accompagnamento. Qui invece un ottimo tocco, contestualizzato al luogo.
Spaghetti di seppia al nero: un’esplosione!
Bigne al nero ripieno di burrata, sfoglia di seppia, gambero, pesca, erba cipollina, dragoncello. Un piatto ottimo e persistente. Per necessità di servizio e per integrità della materia, immaginiamo, la temperatura di servizio del bignè ci è parsa invero un po troppo bassa. Inezie, s’intende.
Imperioso, fantastico, magnifico astice (dalla cottura per niente sfibrata, ma tenace, di scuola francese) con royale di birra doppio malto, foglie di senape e purea di friarielli. La nota elegantemente amara di alcuni elementi si sposa alla perfezione e si fonde in un connubio fenomenale con l’astice.
Altro colpo da ko tecnico alla prima ripresa. Spaghetti all’acqua di pomodoro e semi di lino, anguilla ai frutti rossi. Un piatto di tecnica spaventosa e di risultato gustativo altrettanto importante. Il concentrato di acqua di pomodoro, acidulo-dolce, nappa alla perfezione gli spaghetti serviti ad una temperatura lievemente inferiore (ma qui centrata e a nostro avviso perfetta) che donano intensità e lunghezza ad una anguilla al sugo di fragola e altri frutti rossi (immaginiamo lamponi), che sgrassano e fortificano la preparazione. Un piatto veramente di alta scuola.
Fettuccine ai pistacchi, mortadella, polvere di porro bruciato. Altro gran bel piatto, anche qui tecnica da vendere, forse troppo armonico al palato, senza il giusto e a nostro avviso importante contrasto.
Rana pescatrice alla parmigiana. Ottimo secondo, molto connotato.
Piccione, salsa di zafferano e pannocchie, bon bon al cioccolato bianco, cannella e ciliegia. Un piatto armonico, di altissima scuola. Perfetto nella cottura della carne e negli abbinamenti. Davvero notevole.
Pasta di mais, ricotta, pomodoro infornato e polvere di olive. Il territorio reso dessert, anzi pre-dessert.
L’immensa e fantastica millefoglie… nulla da aggiungere.
Cioccolato, caffè, barbabietola. Un dolce interessante.
Gli interessanti vini che Mario ha servito durante la nostra degustazione.