Chiude il Golfo di Napoli. Spalanca quello di Salerno. Verticale di roccia emersa con imperio dalle acque, vegetazione arrampicata, una sola linea incerta disegnata con l’asfalto che precipita nella spuma del mare, giù, duecento metri sotto le ruote, con le curve ad entrare nelle case. La Penisola Sorrentina è una cosa così e Vico Equense è come un suo ingresso, ne anticipa le architetture mantenute con una certa cura, respira gli umori di vacanza intorno ai tavolini sui marciapiedi, conserva come una misura che ancora leggi in tutte le cose. Poi pero’, converrà scalare qualche tornante nel suo presto divenire collina, tra i silenzi delle pietre, l’abbaglio dei suoi orti e dei suoi frutti, quegli alberi in equilibrio con le radici a trattenere terra un sorta di geografia completa ed essenziale che forse spiega questa vocazione alla gastronomia di qualità degli indigeni, quasi genetica, inevitabile.
Qui, precisamente da venti anni, Peppe Guida – e sua moglie Lella – hanno scelto di vivere e di ricevere gli ospiti della loro cucina. Qui, da venti anni, attualizzano e reinventano quelle eredità di sapori e tradizioni di questi paesaggi. Quelle di Nonna Rosa, appunto.
Il menù degustazione “Peppe fai tu” è come una pagina ritagliata dall’atlante: una serie di improvvisi che tratteggiano con precisione i luoghi e le suggestioni, lo chef e la sua filosofia. Intanto la scelta accurata delle materie prime con abbinamenti -pochi- declinati con grande mestiere ed impiattati col gusto dell’essenzialità. Poi, grande controllo di cotture e temperature, sapori primitivi riconoscibili, profumi intensi, infine tecnica mai esibita ma nascosta. Funzionale. A servizio. Una cucina tesa a donare eleganza a piatti robusti, che alterna temi consolidati a nuovi raffinati equilibrismi, una cantina spiegata nelle pagine della carta -o quasi libro- che ad alcune belle profondità di rossi e di bianchi affianca proposte in continua evoluzione di piccole cantine con buoni rapporti qualità/prezzo. Servizio in sala che coniuga il sorriso con la professionalità che occorre. Come una casa dove si mangia bene. Molto bene.
Polpettina di manzo con parmigiano. La storia del locale. Tutto è nato da qui, tutto parte, ogni sera, da qui. Un bell’esercizio di memoria.
Crostatina con olive ammaccate. Semolino con basilico. Acciuga sale pepe e lime. Zeppolina di alghe. La costiera che si presenta: profumi tra orto e mare.
Pane con lievito madre bianco e al finocchietto, grissini, sfoglia di mais. Semplici, E molto buoni.
La carta dei vini. Robusta. In via di snellimento e svecchiamento con cantine da scoprire.
Gambero crudo, mandorle, lime e gelsomore. Ancora un omaggio alla doppia natura di questi luoghi. Gambero strepitoso, dolce al naturale, fulminato dall’amaro e dall’acido della terra, tema molto caro allo chef.
Sauro su schiacciata di patate, insalata, limone e camomilla. Il signature dish dello chef. Un classico da rifare a casa. La perfezione della semplicità.
Fettuccine di seppia, olio al mandarino, crema di piselli e chips di seppia. Consistenze, contrasti dolce-acido-iodato e poi quel piccolo capolavoro croccante a fornire l’anima della seppia. Qui si comincia a comprendere il mestiere.
Lardo, carciofo, spuma di prezzemolo, briciole di pane e crema di aglio dolce. L’aspetto non molto curato inganna. Piatto di grandissima tecnica con un carciofo grigliato e poi finemente e lungamente lavorato per renderlo mousse senza filamenti. Lardo a salare, aglio dolce a chiudere.
5 consistenze di Provolone del Monaco. Una illuminazione arrivata già al secondo cucchiaio delle originali 5 stagionature di Parmigiano di Bottura in una recente visita a Modena dello chef. Un omaggio divertente e divertito. Un grande formaggio locale nelle sue trasformazioni di forma, temperatura e densità. Sconta l’originalità ma il risultato è notevole. Da perfezionare con le differenti stagionature.
Fedelini aglio e olio con succo di tordo e gamberi. Riduzione di mare. Assoluta. Il tordo è pesce che non abita le cucine degli chef. Qui, una sorta di bisque –intensa e primitiva- gli rende giustizia. Piatto minimale ma di grande intensità.
Candele spezzate con genovese di pollo e cacioricotta. Un altro classico, terragno, che sorprende per il carattere del pollo reso ancor piu’ aggressivo dal formaggio fresco grattugiato in uscita.
Calle dei Campi cipollotto, cacio e nduja. Sullo stesso registro un altro primo di carattere. Qui forse manca il guizzo e, alla fine, ci si affatica. La pasta necessitava di qualche secondo di cottura oltre.
Ricciola scottata, caldofreddo di fave alla scapece e pane all’origano. Si ritorna in cattedra con questo trancio di ricciola di millimetrica cottura con pelle glassata e il motivo delle fave alla scapece -in gelato e intere- a rendere dinamico ogni boccone.
Cannolo di soufflè di pastiera e gelato di caffè amaro. Dessert di buona fattura con la nota tostata del caffè a rendere meno stucchevole la pastiera che riempie un perfetto cannolo fragrante.
Crostata di limone e timo limonato. Pasta frolla superba per un dolce sostenibile dopo una così lunga ed intensa carrellata di sapori.
Zeppole zucchero e cannella. Tradizionale ed irrinunciabile chiusura golosa con le graffe calde. Pasta di patate di morbidezza estrema.
Uno scorcio della cantina, piccola ma con qualche gemma.