Entrare al ristorante Del Cambio di Torino è un’esperienza memorabile. Lo chef che da un anno vi officia, Matteo Baronetto, sta mostrando tutto il suo sapere culinario, la sua cultura enogastronomica, la sua passione e le sue innate doti tecniche, dando vita così ad una cucina tanto personale da trovare il suo equilibrio solo specchiandosi in sé stessa, accettandosi, capendosi e dichiarandosi liberamente. Siamo al cospetto di uno dei più grandi cuochi del panorama nazionale, degnamente supportato da un edificio all’interno del quale è stata scritta parte della storia dello Stivale.
È inspiegabile come di colpo, nonostante si faccia parte di una delle più belle sale da pranzo d’Italia, ci si guardi intorno come storditi, senza riuscire ad apprezzare fino in fondo tanta bellezza, quasi fosse superflua.
I velluti rossi, gli specchi anticati, gli enormi lampadari a goccia di fine ottocento si limitano a fare da cornice all’opera che lo chef sta mandando in scena, svestendosi così naturalmente di quel ruolo da protagonisti che hanno svolto per centinaia di anni.
Certo anche Baronetto avrà sentito il peso di dover essere all’altezza di un luogo come questo.
Oppure no?
Quell’eleganza, quella gentilezza, quella capacità di rispettare ingredienti e preparazioni che solo in pochi grandi, anzi grandissimi, hanno, vengono portati a braccetto da una grande personalità, da una intrigante decisione di intenti e da una formidabile schiettezza. Che tutto questo sia frutto di un compromesso per poter convivere con un luogo dalla tale potenza evocativa? Probabilmente no, anzi, certamente no.
Matteo Baronetto qui pare esprimersi con la libertà leggiadra di un innamorato. Concentra due, tre, quattro gusti in un solo piatto, riuscendo nell’ardua impresa di scinderli nettamente ad inizio degustazione, per poi, via via, accostarli, farli toccare fino ad arrivare a fonderli tra di loro. È un momento di grande ispirazione artistica per Baronetto, in un percorso iniziato da poco eppure già così vicino allo zenit. E’ comparsa anche qualche acidità secondaria, lieve ma penetrante nei suoi piatti. La testa dello chef è libera da schemi mentali fissi e spazia proponendo passaggi che sfiorano il bucolico, altri che richiamano e rincorrono la grande cucina classica francese, per poi arrivare al territorio, quello piemontese tanto ricco di tradizione gastronomica quanto restio alla sua modifica, alleggerendolo senza però metterlo in discussione.
È contento Matteo Baronetto, forse felice. Lo si capisce per quella sua vena ironica che si riscontra in diverse preparazioni. Ironica non perché irride ricette classiche codificate ed eseguite nella medesima maniera da secoli, ma perché riesce nell’intento di far sorridere il commensale ad ogni boccone. Riesce a creare un collegamento schietto e diretto con la ricetta di riferimento, migliorandola, rendendola indimenticabile, senza però mai umiliarla. Il piatto “acciughe affumicate al rosmarino e burro morbido al limone” è la dimostrazione di quanto appena raccontato, in cui la genialità di affumicare e aromatizzare gli elementi dà vita al più buon boccone di pane, burro e acciughe che si sia mai assaggiato, senza però far perdere la voglia, una volta rientrati a casa, di tornare a cenare con la ricetta classica. Sinonimo di grande educazione, che si accosta ad un occhio critico e vigile di rara finezza.
Il benvenuto offerto dalla cucina è un trionfo di frutta estiva, marinata, condita, farcita e glassata che fa il giro di tutti i gusti (dolce, amaro, acido, salato) in modo da preparare il palato alla degustazione. Ma è il cervello a subire continue scosse. L’insalata di fiori e germogli, con brodo caldo al sedano rapa, caviale e fragoline di bosco è un ideologico passo temporale all’indietro in cui l’anima viene contestualizzata al calore estivo che avvolge fiori ed erbe, ammosciandoli e facendoli appassire, rinvigoriti però dalla nota iodata del caviale che richiama il mare e le vacanze estive, e resi freschi dalla brezza montana delle fragoline di bosco. Piatto geniale, concettuale ed appagante.
Tutto il resto è un continuo gioco di consistenze, richiami attraverso ingredienti esotici a gusti tradizionali, illuminazioni classiche e qualche piccola provocazione volta a far riflettere e forse a soddisfare la vanità dello chef.
La valutazione, in questo caso arrotondata per difetto, complici anche i tre piatti ordinati alla carta di un livello lievemente inferiore rispetto al degustazione, vuole essere uno stimolo per lo chef ed un incentivo per tutti gli appassionati che ancora non hanno fatto visita alla sua corte, per poter ripetere la nostra esperienza, indubbiamente una delle più convincenti di questo anno solare.
I piatti classici avrebbero bisogno di maggiore “classicità” e forse una lettura meno ardita. Il servizio avrebbe bisogno di una marcia in più. Per il resto siamo veramente di fronte ad una delle tavoli migliori d’Italia.
Ma ricordatevi, date mano libera allo chef: questo percorso è sicuramente il più congeniale per approcciarsi qui al Cambio in maniera corretta, al cospetto di un grande interprete.
Frutta: Anguria marinata al Martini, lampone farcito con crema pasticcera alla curcuma, ciliegia farcita alle olive e finocchietto, pesca tabacchiera con alici, fico con basilico e colatura di alici. Inizio grandioso.
Insalata di fiori e germogli con brodo al sedano rapa, caviale e fragoline di bosco.
Gamberi rossi con ceci, nocciole e cacao. Piatto con un forte riferimento al territorio. Boccone dopo boccone in bocca si crea una consistenza e un gioco di sapori che ricorda il gianduiotto. Ottimo.
Bisque 1970-2015.
Il piatto completato. Il mascarpone di capra, la menta e il frutto della passione vengono coperti da una bisque leggera, amalgamandosi e fondendosi con essa. Si beve direttamente dalla tazza. Il gusto dolce con fondo tostato della bisque si lega al mascarpone acido e vellutato e viene verticalizzato dal frutto della passione. Altro piatto da KO.
Baccalà, bagnetto rosso, foglie di capperi croccanti e tuorlo d’uovo. Spettacolare.
Acciughe affumicate al rosmarino e burro morbido al limone.
Musetto di maiale, salsa verde essiccata, melassa di cipolle e chinotto. La salsa verde prende la consistenza e ricorda il tè matcha. Il chinotto si rivela un ospite molto gradito all’interno del piatto.
Vitello tonnato. Piatto ordinato alla carta. Buono, nulla di più. Avremmo preferito una salsa forse meno atavica ma più lenta e arrotondante.
Ravioli di yogurt, fave bianche e tartufo liofilizzato. Unico primo piatto presentato durante la degustazione. Provocatorio, svolge il compito di ripulire il palato e prepararlo al resto del pranzo. Il sorbetto del 2020.
Rognoni di coniglio al vapore, semi di coriandolo e lattuga bagnata al moscato d’asti. Forse il piatto della giornata. Rognone cotto alla perfezione, il coriandolo si sposa bene con la nota aromatica dolciastra della lattuga bagnata al moscato d’asti. Favoloso.
Branzino cotto in lattuga di mare, liquirizia e semi di finocchio. Materia prima strepitosa e rispettata religiosamente nella cottura. La laccatura alla liquirizia gioca in contrasto con la vena salata delle alghe.
Agnolotti al sugo. Altro piatto ordinato alla carta, forse anche qui avrebbe giovato una salsa meno tirata e l’assenza del croccante, pleonastico.
Vitello brasato al vino. La scaloppa di vitello è cruda, spruzzata con vino rosso, mentre la brunoise di sedano carota e cipolle viene posta a lato del piatto e tenuta croccante. Geniale.
La finanziera, anch’essa ordinata alla carta.
Bonet, caviale, cavolfiore e mais croccante.
Un dettaglio della splendida sala.
Ingresso della Farmacia, locale adiacente al ristorante dove è possibile acquistare leccornie dolci e salate da poter gustare a casa.
Alcuni dei dolci esposti nelle vetrine della Farmacia, locale posizionata accanto e degno di un passaggio.