Entrare al ristorante Del Cambio di Torino è un’esperienza memorabile. Lo chef che da un anno vi officia, Matteo Baronetto, sta mostrando tutto il suo sapere culinario, la sua cultura enogastronomica, la sua passione e le sue innate doti tecniche, dando vita così ad una cucina tanto personale da trovare il suo equilibrio solo specchiandosi in sé stessa, accettandosi, capendosi e dichiarandosi liberamente. Siamo al cospetto di uno dei più grandi cuochi del panorama nazionale, degnamente supportato da un edificio all’interno del quale è stata scritta parte della storia dello Stivale.
È inspiegabile come di colpo, nonostante si faccia parte di una delle più belle sale da pranzo d’Italia, ci si guardi intorno come storditi, senza riuscire ad apprezzare fino in fondo tanta bellezza, quasi fosse superflua.
I velluti rossi, gli specchi anticati, gli enormi lampadari a goccia di fine ottocento si limitano a fare da cornice all’opera che lo chef sta mandando in scena, svestendosi così naturalmente di quel ruolo da protagonisti che hanno svolto per centinaia di anni.
Certo anche Baronetto avrà sentito il peso di dover essere all’altezza di un luogo come questo.
Oppure no?
Quell’eleganza, quella gentilezza, quella capacità di rispettare ingredienti e preparazioni che solo in pochi grandi, anzi grandissimi, hanno, vengono portati a braccetto da una grande personalità, da una intrigante decisione di intenti e da una formidabile schiettezza. Che tutto questo sia frutto di un compromesso per poter convivere con un luogo dalla tale potenza evocativa? Probabilmente no, anzi, certamente no.
Matteo Baronetto qui pare esprimersi con la libertà leggiadra di un innamorato. Concentra due, tre, quattro gusti in un solo piatto, riuscendo nell’ardua impresa di scinderli nettamente ad inizio degustazione, per poi, via via, accostarli, farli toccare fino ad arrivare a fonderli tra di loro. È un momento di grande ispirazione artistica per Baronetto, in un percorso iniziato da poco eppure già così vicino allo zenit. E’ comparsa anche qualche acidità secondaria, lieve ma penetrante nei suoi piatti. La testa dello chef è libera da schemi mentali fissi e spazia proponendo passaggi che sfiorano il bucolico, altri che richiamano e rincorrono la grande cucina classica francese, per poi arrivare al territorio, quello piemontese tanto ricco di tradizione gastronomica quanto restio alla sua modifica, alleggerendolo senza però metterlo in discussione.
È contento Matteo Baronetto, forse felice. Lo si capisce per quella sua vena ironica che si riscontra in diverse preparazioni. Ironica non perché irride ricette classiche codificate ed eseguite nella medesima maniera da secoli, ma perché riesce nell’intento di far sorridere il commensale ad ogni boccone. Riesce a creare un collegamento schietto e diretto con la ricetta di riferimento, migliorandola, rendendola indimenticabile, senza però mai umiliarla. Il piatto “acciughe affumicate al rosmarino e burro morbido al limone” è la dimostrazione di quanto appena raccontato, in cui la genialità di affumicare e aromatizzare gli elementi dà vita al più buon boccone di pane, burro e acciughe che si sia mai assaggiato, senza però far perdere la voglia, una volta rientrati a casa, di tornare a cenare con la ricetta classica. Sinonimo di grande educazione, che si accosta ad un occhio critico e vigile di rara finezza.
Il benvenuto offerto dalla cucina è un trionfo di frutta estiva, marinata, condita, farcita e glassata che fa il giro di tutti i gusti (dolce, amaro, acido, salato) in modo da preparare il palato alla degustazione. Ma è il cervello a subire continue scosse. L’insalata di fiori e germogli, con brodo caldo al sedano rapa, caviale e fragoline di bosco è un ideologico passo temporale all’indietro in cui l’anima viene contestualizzata al calore estivo che avvolge fiori ed erbe, ammosciandoli e facendoli appassire, rinvigoriti però dalla nota iodata del caviale che richiama il mare e le vacanze estive, e resi freschi dalla brezza montana delle fragoline di bosco. Piatto geniale, concettuale ed appagante.
Tutto il resto è un continuo gioco di consistenze, richiami attraverso ingredienti esotici a gusti tradizionali, illuminazioni classiche e qualche piccola provocazione volta a far riflettere e forse a soddisfare la vanità dello chef.
La valutazione, in questo caso arrotondata per difetto, complici anche i tre piatti ordinati alla carta di un livello lievemente inferiore rispetto al degustazione, vuole essere uno stimolo per lo chef ed un incentivo per tutti gli appassionati che ancora non hanno fatto visita alla sua corte, per poter ripetere la nostra esperienza, indubbiamente una delle più convincenti di questo anno solare.
I piatti classici avrebbero bisogno di maggiore “classicità” e forse una lettura meno ardita. Il servizio avrebbe bisogno di una marcia in più. Per il resto siamo veramente di fronte ad una delle tavoli migliori d’Italia.
Ma ricordatevi, date mano libera allo chef: questo percorso è sicuramente il più congeniale per approcciarsi qui al Cambio in maniera corretta, al cospetto di un grande interprete.
Frutta: Anguria marinata al Martini, lampone farcito con crema pasticcera alla curcuma, ciliegia farcita alle olive e finocchietto, pesca tabacchiera con alici, fico con basilico e colatura di alici. Inizio grandioso.
Insalata di fiori e germogli con brodo al sedano rapa, caviale e fragoline di bosco.
Gamberi rossi con ceci, nocciole e cacao. Piatto con un forte riferimento al territorio. Boccone dopo boccone in bocca si crea una consistenza e un gioco di sapori che ricorda il gianduiotto. Ottimo.
Bisque 1970-2015.
Il piatto completato. Il mascarpone di capra, la menta e il frutto della passione vengono coperti da una bisque leggera, amalgamandosi e fondendosi con essa. Si beve direttamente dalla tazza. Il gusto dolce con fondo tostato della bisque si lega al mascarpone acido e vellutato e viene verticalizzato dal frutto della passione. Altro piatto da KO.
Baccalà, bagnetto rosso, foglie di capperi croccanti e tuorlo d’uovo. Spettacolare.
Acciughe affumicate al rosmarino e burro morbido al limone.
Musetto di maiale, salsa verde essiccata, melassa di cipolle e chinotto. La salsa verde prende la consistenza e ricorda il tè matcha. Il chinotto si rivela un ospite molto gradito all’interno del piatto.
Vitello tonnato. Piatto ordinato alla carta. Buono, nulla di più. Avremmo preferito una salsa forse meno atavica ma più lenta e arrotondante.
Ravioli di yogurt, fave bianche e tartufo liofilizzato. Unico primo piatto presentato durante la degustazione. Provocatorio, svolge il compito di ripulire il palato e prepararlo al resto del pranzo. Il sorbetto del 2020.
Rognoni di coniglio al vapore, semi di coriandolo e lattuga bagnata al moscato d’asti. Forse il piatto della giornata. Rognone cotto alla perfezione, il coriandolo si sposa bene con la nota aromatica dolciastra della lattuga bagnata al moscato d’asti. Favoloso.
Branzino cotto in lattuga di mare, liquirizia e semi di finocchio. Materia prima strepitosa e rispettata religiosamente nella cottura. La laccatura alla liquirizia gioca in contrasto con la vena salata delle alghe.
Agnolotti al sugo. Altro piatto ordinato alla carta, forse anche qui avrebbe giovato una salsa meno tirata e l’assenza del croccante, pleonastico.
Vitello brasato al vino. La scaloppa di vitello è cruda, spruzzata con vino rosso, mentre la brunoise di sedano carota e cipolle viene posta a lato del piatto e tenuta croccante. Geniale.
La finanziera, anch’essa ordinata alla carta.
Bonet, caviale, cavolfiore e mais croccante.
Un dettaglio della splendida sala.
Ingresso della Farmacia, locale adiacente al ristorante dove è possibile acquistare leccornie dolci e salate da poter gustare a casa.
Alcuni dei dolci esposti nelle vetrine della Farmacia, locale posizionata accanto e degno di un passaggio.
Si conferma un porto sicuro il Comptoir des Tontons, semplice locale a due passi da Place de Madeleine a Beaune.
Lo è ancora per la carta dei vini, ricca di importanti bottiglie con ricarichi di grande correttezza, anche se, con il passare degli anni e l’afflusso al locale dei grandi “bevitori” che affollano la Borgogna, la profondità della annate è notevolmente diminuita, in particolare sui bianchi locali.
Tuttavia, nonostante la razzia di parte della cantina, questo rimane uno dei posti migliori nel centro città per stappare una buona bottiglia (ed è possibile anche richiedere alcune bottiglie da asporto, con prezzi che, incredibilmente, sono a volte più bassi di quelli praticati direttamente nelle cantine dei produttori).
La cucina non è da meno, semplice e rispettosa di ingredienti biologici di ottima qualità.
In questa occasione ci ha molto colpito la portata principale: poulet, ottimo bouillon ridotto ai germogli di pino e poi il gran colpo delle verdure di stagione, cotte semplicemente in maniera divina; piatto che non avrebbe sfigurato in un ristorante di livello.
Si può fare un pasto completo con una quarantina di euro.
I formaggi poi, sono quelli di Alain Hess…
Cosa chiedere di più?
Appetizer.
Ravioli di Pancetta Bellota ripieni di bietole e Parmigiano Reggiano; ceci e passata di pomodoro.
Poulet di Bresse della Ferme Merle, Bouillon ridotto ai germogli di Pino Silvestre; legumi di primavera.
Formaggi.
Crème Caramel.
Un pizzico di Italia.
Se siete a Beaune il sabato mattina, non dimenticate di fare un passaggio al bel mercato.
La nuova avventura di Paolo Lopriore è iniziata nel migliore dei modi. Sappiamo per certo che questo non sarà il suo approdo definitivo, ma resta comunque un passaggio importante.
L’anima inquieta e tormentata dell’artista che alberga nell’ormai ex-cuocone brianzolo, (sarà dimagrito almeno una quindicina di chili) è nota e personalmente ci affascina non poco. Anche perchè è foriera di sviluppi culinari interessanti, innovativi e divertenti, come questo Tre Cristi.
Nata dallo spirito imprenditoriale di un gruppo di amici che si occupa di tutt’altro, questa nuova idea di ristorazione ha chiaro e dichiarato come suo intento principale quello di riscoprire il piacere della convivialità, forse un po disperso nei meandri della celebrazione egotica degli chef e dei loro ristoranti avvenuta negli ultimi lustri.
La convivialità è un termine che vuol significare tutto ma può anche non significare nulla. E allora, sulla scia di questa nostra fantastica esperienza, cerchiamo di declinarvi cosa abbiamo inteso noi.
Convivialità significa un modello di ristorazione più informale, in cui dal servizio alla preparazione nulla è più incanalato in un rigido protocollo. Informale beninteso non è sinonimo di minore qualità, ma solo di una forma espressiva differente.
Per esempio, paradossalmente ma neanche troppo, l’attuale suddivisione tra antipasti, primi, secondi e dolci potrà un giorno decadere in questo luogo di goduria e perdizione conviviale. Di fatto è già oggi così, perchè, come è giusto che sia, ogni piatto ha porzioni importanti e quindi la sequenza può e deve essere calibrata per ogni tavolo, per ogni singolo commensale a piacimento. E poi, quanto è affascinante vedere 5 o 6 tavoli al tuo fianco che sono inondati di preparazioni e di tegami con contenuti misteriosi, differenti e molto lontani dai tuoi?
Convivialità significa condivisione, ecco quindi che le portate escono dalla logica vetero-spagnola delle tapas e dei lunghi e chilometrici percorsi di degustazione, se non per gli ammennicoli iniziali, ed entrano in una dimensione molto più italiana, molto più nostra, molto più radicata e identitaria fatta e costruita attorno agli arnesi di cucina (leggasi pentole e pirofile) portati a tavola, in porzioni abbondanti, da condividere ma sopratutto da mischiare e commistionare come meglio si crede. Con un nuovo protagonista, il cliente. Che non è più schiavo degli abbinamenti e delle proporzioni imposte dal cuoco, e dal suo ego, ma decide lui in prima persona come, quanto e cosa abbinare.
Convivialità è anche la pratica spinta degli intingoli, non le salse di origine francese ma i nostri beneamati fondi di cottura, che sono naturalmente più leggeri, non tirati, non arricchiti da troppi grassi e che invitano, convivialmente appunto, ad intingere lo stupendo pane di lievito madre e a goderne insieme perdutamente da parte di tutti i commmensali.
Convivialità è anche, in un prossimo futuro, non troppo lontano ci auguriamo, condivisione tra tavolo e tavolo della cucina, intesa come diversità o biodiversità correlata alla propria singolare o comunitaria esperienza.
In tutto questo tracciato filosofico, in cui è ben presente il pensiero e l’idea del cuoco, ecco spalancarsi tutta la sontuosità, l’agricola eleganza e la maestosità della nuova cucina di Paolo Lopriore. O per lo meno della cucina coerentemente contestualizzata e pensata per questo ristorante. Abbiamo visto a suo agio Paolo in questa nuova idea, tra pirofile e dialoghi, non monologhi. Con confronti e intersezioni, l’anima del pensiero e della crescita.
E il paragone con l’artista ci sorge nuovamente spontaneo. Meglio il Picasso cubista o il primo Picasso impressionista? Due stili molto differenti a cui un maestro si approccia con tutta la sua spinta e la sua carica personale ed il suo talento. Ecco perchè il Tre Cristi è un modello che ci piace tanto.
Si respira un’aria conviviale ai Tre Cristi, ma anche affascinante e intrigante: non fatevelo mancare!
Focaccia pistacchio, aglio dolce e semi d’anice.
Crema cotta di acciughe e borragine, primo sussulto!
Gnocchi di riso al cacio e pepe.
…e dopo i loprioriani benvenuti, questo straordinario pane e questa stratosferica focaccia entrambi a lievito madre di mammà (Lopriore).
Zucchine in scapece. Come spesso accade con questo signore un piatto apparentemente semplice, ma dal profilo gustativo molto complesso.
Il vero piatto! Pane con intingolo filo-giapponese … un brodo umami arricchito da katsuobushi fenomenale!
Una libera citazione al maestro. Straordinari spaghetti di riso, con fondo di burro acido e pistilli di zafferano. Rifinito on top da sferificazione di zafferano e foglia d’oro. Manca certamente il pompelmo, ri-citazione a se stesso, e forse la sferificazione e il posizionamento dell’oro sono leggermente da rivedere. Ma indubbiamente fantastico!
Fave e cipolle…
Baccalà in intingolo d’erbe…
…e crema di baccalà e patate.
Piatto da comporre a piacimento in cui quella crema di baccalà, olio e patate è da fondo scala. il resto ottimo, eccellente!
Gnocchi alla romana divini…
Finanziera di Manzo al bahart (spezie orientali) e kefir… altro piatto conviviale di livello assoluto.
I dolci, si sa, non sono il punto forte di Lopriore… gelatina di pesce e mango, spuma di mandorle amare e pistacchi.
Gelato al caffè ed albicocca e i suoi accompagnamenti…
Gli accompagnamenti…
Basta mettere in fila un po’ di numeri per avere un’esaustiva sinossi della carriera di uno tra più grandi cuochi che la cucina abbia mai avuto.
Quarantuno anni. Tre stelle Michelin consolidate da ormai tredici anni di cui la terza presa a soli ventotto anni. Un unicum nella storia della rossa.
L’uomo de Le Calandre è lui, innegabilmente un genio. Sotto tutti i punti di vista.
Nessuno in Italia, né in Europa e, probabilmente, nel Mondo, ha bruciato le tappe come ha fatto Massimiliano Alajmo.
Sono solo dettagli. Certo.
Il resto è ricerca, tecnica contemporanea a maestosa personalità di una cucina che ha saputo sfornare grandissimi e già affermati talenti.
Non possiamo che constatare il momento di forma smagliante di questa tavola, con un menù, il “tinto”, perfetto punto di incontro tra complessità tecnica e immediatezza gustativa, in cui si resta sopraffatti dall’esasperato inseguimento dell’essenza del cibo e dalla costante ricerca di sensazioni ed elementi ludici che necessitano interazione e coinvolgimento totali da parte del commensale.
Penetrare nella materia è l’unico modo per conoscere tutte le possibilità di espressione della stessa.
La carrellata di piatti provati, in un’incerta primavera, offre una sequenza di ingredienti di incredibile qualità, salse di concentrazioni uniche, tecniche di preparazione da alchimista, leggerezza, disarmante golosità. E poi ci sono tanti “dettagli culinari” come le “essenze”, a corollario di pietanze già strutturate, oli essenziali, il cui aroma accelera il gusto di ogni singolo piatto partendo dall’olfatto.
Alajmo non ha mai inseguito mode, si è lasciato solo ispirare dai suoi maestri (Veyrat e Guerard) e ha dato vita alle sue idee e immaginazioni. Non un classico che sia stato concepito o già visto prima di lui, nè una tecnica che sia già stata utilizzata da altri.
Non è un percorso perfetto, non vuole esserlo perché l’aspetto che prevale è più quello emotivo, seguito a ruota dal divertimento.
Il commensale si ritrova catapultato in uno spettacolo multi sensoriale in cui si respira un’aria scanzonata. Tant’è che, in un menù così ampio e articolato, si perde ad esempio il piacere dei sofisticatissimi virtuosismi tecnici del Gocciolato, un menù nel menù che invece sarebbe opportuno gustare quasi come un assolo per comprenderne al meglio raffinatezze stilistiche e contrappunti, giocati su sensazioni infinitesimali che, dopo tante portate, in realtà si perdono nella sensazione di sazietà generale. Consigliamo difatti come dolce conclusivo la “mozzarella di mandorla”, sicuramente più calata in un percorso in cui la leggerezza gioca un ruolo importantissimo.
E poi ci chiediamo se si possa (per noi si deve) fare di più sul versante delle “testure”, dato che ci è sembrato piuttosto strano il reiterato uso del riso soffiato su ben tre preparazioni. Ma sono domande che sorgono spontanee al cospetto dell’indiscutibile talento di Alajmo.
Una cucina che è perfettamente integrata alle bellissime ed uniche stoviglie firmate dallo stesso chef e al contesto della sala, minimalista, in cui spiccano i meravigliosi tavoli, ricavati da un unico tronco di frassino olivato di quasi duecento anni, sui quali la luce risalta i colori del cibo e qualche dettaglio di colore sparso per la sala (riteniamo Massimiliano un genio perché le “sgocciolature” sui muri e sui tendaggi, in pieno stile pollockiano, pare li abbia concepiti e realizzati in una mezz’oretta, il che sembra incredibile per quanto siano affascinanti).
Il servizio, formidabile in termini di tempistiche, è uno dei più intelligenti e divertenti d’Italia. Raffaele Alajmo -insostituibile il suo ruolo imprenditoriale nell’azienda- ha saputo formare una squadra giovane e affiatata, oggi capitanata da Andrea Coppetta Calzavara.
Tutto questo è Le Calandre, un ristorante che ha fatto la storia della ristorazione mondiale. E chissà ancora quanto avrà da dire.
Il fantastico pane.
I famosi snack della casa.
Amuse bouche:
dotto fritto con caviale, airbag di pane con carote e cumino e barchetta con piselli e Joselito.
Primavera di verdure cotte a freddo.
Verdure cotte a crudo marinate al sale, gelato all’estragone e crema al pistacchio. Notevole inizio.
Nudo e crudo di carne e pesce.
Carpaccio d’astice e riso croccante, fassona farcita con calamari, caviale e salsa ai fasolari; gambero impanato, radicchio e maionese di mandorle, curry, curcùma e mandarino. Che bocconi!
Linguine di calamari con vongole cannolicchi e asparagi.
Finta pasta di calamaro e dotto (i pesci vengono destrutturati disidratati e reidratati). La salsa è fatta con cannolicchi, vongole, granchio, asparagi e crema di ricci di mare. Piatto da 20/20 per tecnica, gusto ed emozioni.
Spaghetti con salsa di moeche.
La pasta non può che essere Benedetto Cavalieri e il sugo è fatto con moeche, pomodori e ricci di mare per accentuare la sapidità marina.
Consapevoli dell’immensa bontà del sugo, dalla cucina arriva la padella per il piacere della scarpetta.
Risotto all’olio extra vergine di oliva con capperi, caffè e rosa.
Versione 2015 del classico risotto capperi e polvere di caffè. In questa nuova versione spicca il potente profumo floreale della rosa che lascia in bocca un fragranza prolungatissima.
10 grammi di pasta alla carbonara.
Si tratta di una sfoglia sottilissima di pasta all’uovo con crema d’uovo, pecorino, pepe nero e speck.
Un po’ più rustica rispetto al resto, comunque una riuscitissima variazione.
Rombo al mais con bottarga e crema di carciofi e pistacchio.
Carpaccio sottile di cervo in agro di vino. Piatto preso in prestito dal menu “istinto” al posto delle animelle.
Una combinazione di gusti di lieve acidità che caratterizzano il piatto nella sua notevole eleganza.
Animelle dorate al curry e liquirizia.
Il piatto meno convincente.
Piccione con barbabietola rossa, topinambur e tartufo nero. Il volatile subisce due cotture differenti. La coscia viene padellata con il maraschino. Forse una versione ancora un po’ autunnale.
Degustazione di frutta aromatizzata.
E poi il palato si resetta con il Lemon sour. Un sorbetto al limone con frizzi pazzi, granita al rhum e una spruzzata di essenza alla limetta.
Sul dessert si può scegliere tra la “Mozzarella di mandorla” che straconsigliamo, anche perché più in linea con il concept del menu. Un’isola del sud in un piatto.
Parecchio più impegnativo il “Dolce far niente (gioco al cioccolato 2015)”.
Sicuramente divertente ma impossibile da finire dopo un percorso degustazione.
Alcuni scatti del curioso dessert.
Dita con crema alla curcuma, crema di noci pecan e crema alla nocciola.
Fiocco di curcuma.
I vini degustati.
Lì dove il mare si dissolve all’orizzonte uniformandosi con il colore azzurro del cielo: panorami mozzafiato da molteplici strapiombi di un’isola meravigliosa, dove l’alba e il tramonto sembrano dipinti da maestri dell’impressionismo.
È Salina, una delle perle delle Eolie, sicuramente quella con l’animo più rurale dell’arcipelago. Un luogo ideale per rilassarsi, soprattutto fuori stagione, e apprezzare i simboli enogastronomici autoctoni, i capperi e la Malvasia.
La famiglia Caruso, proprietaria di uno dei più affascinanti alberghi dell’isola, con una trentennale esperienza alle spalle nel campo dell’ospitalità, la sa lunga in termini di accoglienza.
Signum è un bellissimo boutique hotel immerso tra i profumi di agrumi, gelsomino e bouganville, frutto di una accuratissima ristrutturazione di un complesso di abitazioni nel cuore del borgo di Malfa, uno dei tre comuni di Salina.
La struttura è dotata di un affascinante centro benessere, di camere confortevoli e, soprattutto, di una interessante tavola di qualità.
Siamo ben distanti dalle più rinomate rotte gastronomiche della regione, ma, nonostante ciò, ai fornelli c’è una giovanissima cuoca che merita attenzione.
Nel suo percorso formativo, ancora in itinere, Martina Caruso ha toccato pentole e padelle importanti nelle cucine di Antonello Colonna, Luciano Monosilio e Gennaro Esposito, dal quale ha sviluppato una maggiore sensibilità per la cucina mediterranea.
I suoi piatti, in perfetto equilibrio tra la più radicata tradizione -priva di colpi di scena- e la creatività, non hanno un particolare fascino estetico, ma sono realizzati con ottima tecnica e buona dose di intelligenza. Proporre una caponata come contorno al piatto principale può sembrare banale, ma non lo è affatto se si considera l’elemento attrattivo finalizzato alla scoperta della profonda tradizione gastronomica siciliana e la ricerca di genuina autenticità che pervade il turista straniero, specialmente se il risultato è di grande leggerezza.
E che dire della profusione olfattiva del finocchietto nel “banale” pacchero che, metaforicamente, è un perfetto compendio dei sapori dell’isola, o il concentratissimo sentore di cappero del cremoso gelato servito come pre-dessert che ricorda tanto il gelato al tartufo di Ciccio Sultano?
Non manca qualche peccato di gioventù, come l’eccessivo arricchimento di una componente cremosa nel già ottimo raviolo patate e polpo, o un abbinamento non proprio azzeccato del gelato alla vaniglia (ma ci dicono che la ricetta originale prevedeva un gelato alla Malvasia) accostato alla cornucopia di cannolo alla ricotta.
Comunque sia, al Signum riscontrerete una mano sicura, capace di destreggiarsi tra prodotti di terra e mare con qualche risultato più brillante nel secondo caso.
Tanto di cappello per l’ampiezza della carta delle vivande e per il coraggio imprenditoriale, soprattutto di questi tempi in cui anche le grandi tavole tendono sempre più a ridurre la scelta, ed imporre un percorso discrezionale dello chef: questa è una di quelle tavole in cui la scelta è molto ampia. In tale contesto, è comprensibile la scelta di avere preparazioni meno complesse ma, allo stesso tempo, capaci di dare un’idea più immediata della rivisitazione della tradizione.
E non c’è da preoccuparsi neanche per i tempi d’attesa prolissi, perché nonostante non avessimo optato per una degustazione guidata, a locale pieno, il servizio si è rivelato sorprendetemene solerte.
Il fiore all’occhiello del ristorante è l’interessante carta dei vini, strutturata in profondità di annate ed ampiezza, con l’immancabile focus sulla enologia regionale, che farebbe invidia a tanti bistellati.
Dulcis in fundo, ricordatevi di prenotare un tavolo nel dehor panoramico, con vista su Stromboli e Panarea.
Considerata la bellezza dell’isola e il fascino del luogo, torneremo molto presto.
Grissini e tarallini
Crema di pane profumata alle acciughe.
Coniglio farcito e tonnato.
Piatto rustico ma ben studiato, e lo si intuisce anche dalle proporzioni tra salsa tonnata e carne (quest’ultima leggermente un po’ asciutta). Preparazione nel complesso gustosa che, probabilmente, non sfigurerebbe tra i secondi.
Ravioli… polpo e patate.
La pasta del raviolo di patate è tirata in maniera impeccabile e l’abbinamento con il polpo ben equilibrato (interessante il lavoro di consistenze con l’utilizzo del carpaccio) sebbene l’eccessiva componente cremosa rende il tutto più impegnativo (una versione meno “lipidica” sarebbe stata più piacevole al palato).
Paccheri con ragù di pesce, concentrato di pinoli ed erbette selvatiche.
Ottima la cottura della pasta, e molto buono anche il condimento e la qualità del pescato, dalla corretta sapidità e dalla piacevolissima lunghezza del finocchietto.
Ricciola con caponata. Semplice ma perfettamente eseguita con la caponata dall’alto tasso di digeribilità. Anche in questo caso, qualità del pescato di ottimo livello.
Dalla bellissima carta dei vini…
Davvero eccellente il gelato al cappero, che potremmo definire l’emblema di questa cucina.
L’altissimo livello del pre-dessert viene disatteso dal cannolo con ricotta e gelato alla vaniglia (la ricetta originale prevedeva il gelato alla Malvasia).
Gradevole lo zuccotto, per il quale avremmo preferito un maggiore contrasto acido. Considerata la porzione, (impegnativa) a lungo andare può risultare monocorde. E’ anche vero, tuttavia, che lo stesso dessert sia stato molto apprezzato dai commensali di fianco al nostro tavolo. Del resto, è sempre difficile riuscire ad accontentare tutti.
Piccola pasticceria.
La sala interna.