Passione Gourmet Aprile 2015 - Passione Gourmet

The Ledbury

Travolti da un insolito destino”: si potrebbe partire con questa citazione della grande Lina.
E’ indubbio il successo ottenuto da Brett Graham negli ultimi anni: successo di una parte della critica, che lo ha addirittura portato nelle prime posizioni del ranking mondiale, ma successo anche di pubblico, che fa registrare spesso e volentieri il sold out in questo locale nel cuore di Notting Hill.
Sono tanti gli estimatori di questo cuoco australiano, che ha saputo evidentemente muoversi bene, sia dentro che fuori dalla cucina.
E che continua ad investire nella sua impresa: è dell’anno scorso “l’acquisizione” di James Petrie, per 11 anni a capo dello sviluppo creativo del Fat Duck di Blumenthal.
Eppure, noi di Passione Gourmet, continuiamo a non essere totalmente convinti della sua proposta.
Pur se leggermente superiore rispetto alla nostra visita di qualche anno fa, l’esperienza rimane nell’ambito del buon livello, ma senza raggiungere quelle vette consone ai fuoriclasse.
Stiamo parlando, tanto per essere ancora più chiari, di un ottimo cuoco, dotato tecnicamente, che sa in alcuni frangenti estrarre dal cilindro piatti di altissimo profilo (vedi lo sgombro, diventato, non a caso, un suo signature dish). Ma che si esprime, per la maggior parte del pasto, in maniera poco elegante, un po’ confusionaria, mantenendo sempre ben in asse la centralità gustativa (cosa certo non da poco!) ma non trovando quasi mai quella profondità e quella finezza che si richiede alle grandissime tavole. Interessante la contaminazione tra la scuola classica francese, gli ingredienti inglesi e alcuni sapori del mondo asiatico. Ma il tratto rimane sempre un po’ rude, scomposto, non completamente a fuoco. E pericolosamente in bilico tra il nuovo e il déjà vu, tra la creatività e il classicismo, con il rischio concreto di apparire superato e stanco in alcuni passaggi.
Una eleganza che invece abbiamo trovato nei dessert: precisi, puliti e privi di inutili orpelli.
Un posto in cui certamente si sta bene, con un buon servizio, giovane, fresco e attento (in sala anche due italiani molto bravi). La sala ha forse più coperti del dovuto in relazione alla sua metratura, il che rende il ristorante eccessivamente rumoroso, ma questa non è certo una anomalia nel panorama londinese.
Anche la carta vini è da ristorante di livello, con conseguenti ricarichi.
Ma non stiamo parlando di uno dei migliori ristoranti del mondo: il Ledbury non è nemmeno il miglior ristorante di Londra.
Il prezzo del pasto è assolutamente coerente: il lunch menù, a 50£, è certamente un affare nella costosa Londra. Ma anche la proposta serale, da 95£ a 115£, è assolutamente appetibile per la fascia di offerta in cui si inserisce il Ledbury.
Il pubblico, inglese e non, apprezza molto. Quindi non possiamo che applaudire al Brett Graham ristoratore.

Appetizer.
appetizer, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
appetizer, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
appetizer, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Carciofi violetti, prosciutto d’anatra, uva, nocciole e foie gras grattugiato.
Ogni ingrediente (ottimo) viaggia per conto suo, non trovando mai una amalgama convincente. Preparazione, inoltre, eccessivamente fredda per un inizio pasto invernale.
Carciofi, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Rapa cotta nell’argilla, sale al caviale, anguilla disidratata affumicata.
Più interessante questa preparazione, soprattutto in termini di consistenze. Leggermente monocorde il risultato.
rapa cotta nell'argilla, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Burro al siero di latte di capra, spruzzato di melassa.
Davvero ottimo questo burro di capra servito con il pane.
burro al siero di latte, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Sgombro grigliato, cetriolo sottaceto, senape e shiso.
Tartare di sgombro avvolto in un gel di cetriolo.
Un signature dish di Brett Graham, davvero un grandissimo piatto, certamente il migliore della serata. Complesso, profondo, molto preciso nel dosaggio degli ingredienti. Difficile trovare uno sgombro cotto in maniera migliore.
sgombro grigliato, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Coniglio, spugnole, aglio orsino, latticello.
Buono, ma confusionario, poco definito nelle sue componenti.
Coniglio, spugnole, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Filetto di spigola, brassicaceae, alghe marine e sake.
Filetto di Spigola, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Piccione, rapa, olive, radicchio e petali di rosa sottaceto.
Piccolo kebab di cuore fegato e filetto.
Il kebab di frattaglie è eccessivamente addomesticato, non ha la spinta gustativa che ci aspetterebbe. La cottura del piccione è perfetta, così come sono molto interessanti i petali di rosa sottaceto a ripulire il palato. Il resto è buono, ma non trova una sua collocazione sensata nella costruzione della portata.
piccione, rapa, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
cuore fegato e filetto di piccione, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Predessert: Crema di vaniglia, meringa e cocco.
pre dessert, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Rabarbaro, biscotto all’olio di colza, cocco e vaniglia.
Dessert di ottimo livello. Acido e amaro perfettamente dosati in una preparazione fresca, dai gusti ben concentrati.
rabarbaro, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Torta allo zucchero di canna, rum, gelato allo zenzero.
Un altro signature dish di Graham. Abbastanza classico nella costruzione, ma perfetto.
torta allo zucchero di canna, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
Piccola pasticceria.
piccola pasticceria, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
piccola pasticceria, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
piccola pasticceria, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
tavolo, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra
ingresso, The Ledbury, Chef Brett Graham, Notting Hill, Londra

Zaiyu Hasegawa è uno chef coraggioso. Non è né facile né comune, in Giappone, proporsi come innovatori della tradizione, e l’attenzione al ben fatto più che all’originale è innata in una clientela cui non manca di certo la possibilità di mangiare bene o benissimo.
Proporre, quindi, come fa lui un vero e proprio kaiseki contemporaneo, in cui sono introdotti elementi ludici e “pop” in un percorso tracciato da secoli di tradizione, è un’impresa rischiosa.
Fortunatamente, la scommessa è stata vinta perché poggia su basi solide e oggi trovare posto al Jimbocho Den è una delle imprese più complicate per il turista gourmet, complice oltretutto un conto meno stellare che in altre tavole di successo nella capitale.
La cornice è meno paludata rispetto ai grandi kaiseki classici: cucina a vista, ma meno ovattata del solito e –anatema- ben due donne oltre allo chef de cuisine e agli altri maschietti, una delle quali nel ruolo di sous chef. Anche gli avventori sono meno silenziosi del solito, contenti, divertiti dalle proposte talvolta spiazzanti del menù.
A ben guardare, però, il rispetto dei cardini della tradizione c’è tutto: stagionalità, ingredienti locali di gran pregio ricercati con cura maniacale, anche la sequenza dei piatti coerente con la tradizione fino al formidabile riso che precede i dessert. L’innovazione è tutta nella confezione, in alcuni trompe l’oeil che giocano con le cucine “altre” o con presentazioni inattese, per prendersi un po’ meno sul serio. Sinceramente, fosse solo per questo Den non spiccherebbe rispetto a ben più sfidanti provocazioni cui noi occidentali siamo abituati in cucina, ma fortunatamente c’è sostanza, c’è grande capacità tecnica, ci sono materie prime di livello eccelso che giustificano la visita.
Paradossalmente, quindi, il piatto più memorabile è un clamoroso spanish mackerel dalla texture di velluto, contrappuntato da un wasabi d’impareggiabile freschezza (maniacale la cura nel mescolare le parti grattugiate all’estremità e al centro della radice fino a bilanciarne le diverse caratteristiche per il risultato perfetto; lo chef assaggia e riprova infinite volte prima di essere soddisfatto).
Una nota a parte per i dolci: in cucina lavora un pasticcere francese ed entrambe le proposte, all’insegna del giocoso, sono davvero di ottimo livello: una rilettura “campestre” del tiramisù e un “caffè” in stile Den che possiamo annoverare tra le migliori esperienze recenti di dessert nella ristorazione.
Servizio molto presente ed entusiasta di raccontare i piatti in un inglese fluente (con un accento molto locale a cui ci si abitua presto); un ulteriore segnale della voglia di guardare al di fuori dai confini nazionali testimoniata anche dalla presenza dello chef a iniziative congiunte con colleghi di altri paesi.
Forse non LA tappa da non mancare oggi a Tokyo come speravamo, ma di sicuro una visita interessante e consigliabile.

Personalissima versione del “monaka” come benvenuto: ma anziché la pasta di azuki, nel ripieno c’è foie gras con miso, albicocca e cetriolo sott’aceto. Un gioco molto divertente con la tradizione, riuscitissimo anche nel gusto e nei giochi di consistenze del ripieno.
monaka, benvenuto, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
benvenuto, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
L’interessante saké in versione “sparkling” proposto in abbinamento.
sakè, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Il brodo di tartaruga, con verdure e zenzero in coreografica presentazione. Buonissimo, leggero e corroborante.
brodo di tartaruga, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
brodo di tartaruga, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Il Dentucky Fried Chichen: piatto simbolo, famosissimo è un pollo fritto ripieno di fagioli e carne dello stesso pollo, pare ispirato a un piatto brasiliano. Forse il passaggio meno convincente della serata, viste le aspettative.
Dentucky fried chicken, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
fried chicken, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Lo splendido spanish mackerel: indimenticabile, da fondo scala.
spanish mackarel, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Maiale con cavoli e mais, impeccabile.
maiale con cavoli, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Spettacolare insalata di verdure cotte e crude.
insalata di verdure, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Pregiatissima “neonata” che accompagna il riso finale, come da tradizione servito con “pickles” di pregevolissima fattura.
Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
pickles, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Il primo dessert: “muschio” realizzato con una mousse di formaggio ricoperta da té verde, té nero e foglie di té nero. Una pregevole rilettura del tiramisù in chiave nipponica.
mousse di formaggio, tè verde, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo
Star comebacks: un pudding di crema e zucchero di canna cotto 8 ore fino a farne uno spesso caramello, a cui viene aggiunto tartufo nero. Un caffé ricostruito in versione dessert, di magnifica persistenza. Il gioco di parole, oltre ad alludere alla famosa catena americana, è relativo all’auspicio dello chef di recuperare la stella perduta.
pudding, Jimbocho Den, Chef Zaiyu Hasegawa, Chiyoda-ku, Tokyo

Talent show culinari, copertine sexy su riviste patinate, discusse pubblicità di patatine: non c’è dubbio che Carlo Cracco sia il cuoco del momento in Italia, volto noto ormai ad un pubblico ben più vasto di quello dei semplici gourmet o appassionati di alta cucina. E a noi, che siamo noti per coltivare quest’insana passione, tocca far fronte, mai come in questo momento, alle domande di amici e conoscenti: ma questo Cracco è davvero un grande cuoco o si tratta solo di un fenomeno mediatico? Ma se sta sempre in televisione chi cucina nel suo ristorante? E soprattutto la regina delle domande: come si mangia nel suo ristorante, vale la pena andarci?
E noi sgombriamo immediatamente il campo da ogni possibile equivoco spiegando che si, davvero Carlo Cracco è un grande cuoco.
Dal curriculum inappuntabile che racconta di tanta scuola francese, da Ducasse a Senderens, fino a Gualtiero Marchesi, con cui è stato sia da giovanissimo a Milano, che successivamente all’Albereta in Franciacorta. E poi la consacrazione con le tre stelle conquistate al timone dell’Enoteca Pinchiorri. Quindi c’è la storia più recente, che è tutta milanese nel ristorante “antiatomico” (nel senso che, per chi non lo sapesse, si sviluppa interamente sotto terra) di Via Victor Hugo prima insieme agli Stoppani di Peck poi dal 2007 da solo.
Alcune sue creazioni hanno contribuito a scrivere una parte della nuova grande cucina italiana. Fra tutte non possiamo non citare la pasta all’uovo senza farina, fatta di soli tuorli sottoposti ad una particolare marinatura. Quell’uovo che è da sempre il suo ingrediente feticcio, e alla cui “quadratura” Cracco ha anche dedicato un interessante libro.
Ma, tornando alle domande ricorrenti di cui dicevamo, come si mangia oggi al ristorante di Cracco? Domanda assolutamente non banale dal momento che è passato ormai un anno e mezzo dall’abbandono di Matteo Baronetto, che per tanti anni ha firmato il menu del ristorante insieme a Cracco. Oggi il talentuoso Baronetto è impegnato a far tornare agli antichi fasti Cambio a Torino (e ci sta riuscendo alla grande), mentre sous chef di Cracco è diventato il giovane Luca Sacchi.
Anche in questo caso sgombriamo rapidamente il capo da ogni dubbio. Bene, da Cracco si continua a mangiare molto bene. L’epoca post Baronetto inizia a consolidarsi con caratteristiche sue proprie, facendo salvo ovviamente l’imprinting e lo stile del patron.
Tra gli elementi di novità si può notare un sensibile incremento delle tonalità dolci ben rappresentato da un piatto come il Trancio di baccalà laccato, senape, miele, zucca affumicata e verza.
Quella radicalità nei gusti che è sempre stata un must di Cracco, ben rappresentata dalla sua passione per ingredienti difficili quali animelle e ricci di mare, oggi è meno presente (non vorremmo sbagliarci ma probabilmente è la prima volta che non troviamo i ricci di mare nel menu) in favore di una maggiore rotondità complessiva. Rotondità che si manifesta apertamente nel Risotto, nero di seppia, prezzemolo e curcuma, piatto esteticamente molto accattivante, perfettamente eseguito ma che dalla bocca scivola via troppo in fretta.
E si, è giusto che la critica non faccia sconti soprattutto ai cuochi grandi come Cracco. Perché solo un cuoco grande può concepire un piatto fantastico come i Ravioli al latte di capra, rapa, barbabietola e gamberi, splendido contrasto di mare e terra che al palato abbiamo davvero trovato emozionante. Se poi vogliamo capire come deve essere il dessert perfetto dopo un menu di 11 portate, beh il nostro voto va alla Crema di ricotta al sesamo e nero di seppia, mela Fuji e nocciola, altra zampata da fuoriclasse.
Un’ultima notazione vorremmo farla sul servizio. Nessun errore, ottima efficienza ma manca un po’ di comunicatività, di empatia. O, forse, più semplicemente in sala manca un fuoriclasse e un locale di questo livello probabilmente non potrà permettersi a lungo questa mancanza.

benvenuto, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
benvenuto, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Insalata russa caramellata: un grande classico.
insalata russa, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Crudo di “Vicciola”, pappa di cavolfiori e caviale.
crudo di Vicciola, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Piatto ultragoloso: Crema cotta ai capperi, wasabi, mortadella e pistacchi.
crema cotta, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Cuore di vitello in insalata, porcini, broccolo fiolaro e nocino, piatto che regala una bella nota fresca al palato.
cuore di vitello in insalata, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Impegnativo il trancio di baccalà laccato, senape, miele, zucca affumicata e verza.
trancio di baccalà, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Andare da Cracco e non trovare l’uovo? Impossibile. Tuorlo d’uovo fritto, taleggio, vino rosso e brodo di manzo.
Tuorlo d'uovo fritto, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Ravioli al latte di capra, rapa, barbabietola e gamberi. Emozioni.
ravioli al latte di capra, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Risotto, nero di seppia, prezzemolo e curcuma. Il nero di seppia? Lo trovi solo mangiando.
risotto nero di seppia e prezzemolo, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
risotto nero di seppia e prezzemolo, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Piccione arrosto, spinaci, scorzonera e bacche di Goji. Eccellente.
piccione arrosto, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Sorbetto all’ananas e basilico, cioccolato al biscotto e chiodi di garofano.
sorbetto all'ananas, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Crema di ricotta al sesamo e nero di seppia, mela Fuji e nocciola. Geniale. Amanti dei dessert barocchi e stucchevoli astenersi.
crema di ricotta, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Coccole finali.
coccole finali, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano

Londra è probabilmente la città europea in cui la cucina asiatica si esprime ai livelli migliori.
Quella Giapponese si è ritagliata uno spazio importante: locali costosi dove gustare sushi di altissimo livello (su tutti Araki e Sushi Tetsu) ma anche spazi più popolari, più accessibili economicamente, dove trovare la cucina giapponese di tutti i giorni.
Tra questi, Koya è senza dubbio l’indirizzo da segnare in agenda: specialità Udon, varietà Sanuki, i famosi noodle di farina di frumento da mangiare freddi o caldi, in brodi di varia natura.
Ma ancora più interessanti sono i piccoli piatti da scegliere da una striminzita carta che cambia giornalmente: piccole perle di cucina giapponese, più o meno contaminate dall’estro europeo.
Koya nasce nel 2010 dalla passione sfrenata per gli Udon da parte di un irlandese, John Devitt.
Gli Udon non erano certo una novità a Londra, ma Koya ha portato la qualità e l’attenzione per i dettagli tipiche dei migliori indirizzi giapponesi. Quindi udon fatti a mano giornalmente, brodi freschi e ricchi di umami, ingredienti di primissima qualità.
In cucina Junya Yamasaki, un passato importante da Kunitoraya a Parigi prima di mettere radici in questo locale di Soho.
Il successo è stato travolgente.
Il locale è piccolo e molto semplice, non sarà raro mangiare gomito a gomito con perfetti sconosciuti. Non si accettano prenotazioni, perciò cercate di scegliere gli orari meno inflazionati oppure armatevi di pazienza perché spesso si trovano persone in attesa fuori dalla porta. Il servizio è comunque rapido, quindi non ci sarà mai molto da attendere.
In alternativa, sulla stessa strada, c’è anche il Koya Bar, stessa proprietà e filosofia, aperto in orario continuato da colazione a cena.
Il concetto è quello di applicare la filosofia giapponese al contesto: quindi ricette e idee della tradizione giapponese ma con ingredienti locali, come il pesce delle coste del Galles o i vegetali coltivati da agricoltori autoctoni.
Risultato di ottimo livello, sia per quanto riguarda gli udon, sia per i piccoli piatti del giorno, nel nostro caso una sogliola fritta nella sua interezza di grandissima fattura. Una esperienza che certamente non ha moltissimo da invidiare a quelle fatte a Tokyo.
Fortunati questi londinesi…

Insalata di spring greens, erbe selvatiche & ponzu.
insalata di spring greens, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
Sogliola al limone fritta croccante con daikon al peperoncino.
sogliola al limone fritta, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
daikon al peperoncino, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
Gyushabu udon (con manzo shabu shabu).
Gyushabu udon, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
Té verde giapponese (della casa).
tè verde, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
I menù alle pareti
menù, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
menù, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
locale, Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr
Koya, Chef Junya Yamasaki, Londr

28 posti. Non un modo di dire, ma il numero le sedute del bistrot in zona Navigli capitanato da Marco Ambrosino. Semplicemente.

Un ambiente ospitale, in una delle zone più frequentate di Milano, stagione dopo stagione: in estate ne apprezzerete la luminosità e il piacevole dehor; in inverno la riservatezza, complice la nebbia e la posizione leggermente decentrata rispetto ai flussi principali. Un ristorante sobrio, dall’arredamento nordico, che richiama quel modo hygge ultimamente in voga e che pare suggerire “accomodati, mettiti a tuo agio e goditi il pasto”.
A scaldare l’ambiente, oltre a dettagli quali lampadari e oggetti che sembrano messi qua e là sbadatamente, il sorriso disponibile e la presenza discreta di Iris Romano. Se nella visita precedente la sala era parsa un po’ legata, ora è evidente una buona padronanza della scena accanto a una preparazione valida in tempistiche e abbinamenti vino/cibo. Hygge dicevamo: non esiste una traduzione precisa dal danese ma è uno stile che invita al relax e, nel nostro caso, a fidarsi completamente dello chef che deciderà le pietanze tra 5, 8 o 10 portate (per i meno fiduciosi nessun problema, c’è una piccola selezione alla carta).

Stile confermato anche nelle posizioni intercambiabili dei piatti, che vengono sdoganati dal classico ruolo di antipasto, primo o secondo e vengono suggeriti come “Prima o poi” in funzione di cosa dice l’istinto. Rimettersi allo chef è una buona idea, perché si intraprende un viaggio nel gusto che tocca prima la Danimarca delle fermentazioni (volo radente di Ambrosino in uno stage al Noma), poi sfiora il Sol Levante tra una salsa ponzu e una foglia di perilla cristallizzata, e si respira il calore del Mediterraneo nella Chiajozza, piatto omaggio all’isola di Procida che ha dato i natali allo chef.

Manteniamo invece, nuovamente, la riserva su alcune delle portate, che colpiscono ad un primo contatto risultando in realtà, purtroppo, carenti in personalità, concentrazione e gusto. Nonostante 28 posti sia, senza timore di smentita, un luogo di piacevolezza assoluta, questo leggero tentennamento ricorrente ci suggerisce cautela, confermando dunque la votazione precedente.
Siamo anche certi però che il reale valore dello chef e della sua cucina siano in costante mutazione e definizione, in attesa della perfetta messa a fuoco.

La mise en place: pulita ed essenziale.
28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Il Pendio, Brusato Rosè. La nostra scelta dopo il bel racconto di Iris sull’azienda produttrice.
vino, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Il colore meraviglioso di questo Chardonnay femminile ma di carattere.
28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano

Si inizia con il benvenuto: chips di fitoplancton. Leggermente unta ma davvero buona.
chips di fitoplancton, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Cicoria con miso e cipolla agrodolce. Un po’ più di condimento (o meno cicoria) avrebbe bilanciato il mix di sapori.
cicoria con miso, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Macaron alle acciughe.
macaron alle acciughe, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Indivia con salsa ponzu, finocchietto e menta.
indivia con salsa ponzu, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Pane lievitato al naturale, già diviso a spicchi e da rompere con le mani, accompagnato da burro e polvere di trombette dei morti. I lievitati sono di certo un bonus del 28 posti.
pane lievitato al naturale, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Rapa bianca, estratto di lattuga, lime e tartufo. Nonostante la freschezza del lime e il bel contrasto con il tartufo, la nota vegetale della lattuga risulta quasi assente quando, al contrario, sarebbe stato un bel profumo di cui godere.
rapa bianca, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Chiajozza. 10 minuti di applauso, step 1. 
Canocchie crude, cavolo cappuccio, gelato ai ricci di mare, carbone al nero di seppia in un trionfo iodato indimenticabile della perfetta rappresentazione dei mari del Sud.
Chiajozza, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Spaghetti con burro acido, tabacco e aringa affumicata. Corretti e ben bilanciati.
Spaghetti con burro acido e tabacco, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Agnello con salsa al fitoplancton, maionese di ostrica e cavolo di mare. 10 minuti di applausi, step 2.
Una cottura perfetta permetteva all’agnello e al suo grasso di sciogliersi al contatto con il palato. La parte marittima è rinfrescante e intrigante, in un matrimonio decisamente ben riuscito.
agnello con salsa al fitoplancton, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Sorbetto al basilico giapponese, alloro, olio, sale.
sorbetto al basilico giapponese, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Finocchio sciroppato, gel al sambuco, cremoso al cioccolato bianco e meringa al limone. Sublime saliscendi tra consistenze diverse, dolcezze e sapidità.
finocchio sciroppato, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Topinambur, kiwi essiccato, gelato al sorgo e perilla cristallizzata in un risultato incisivo, maschile, sexy.
topinambur, kiwi, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano