Avevamo lasciato Luigi Taglienti lì, ad operare in quella che, da quando aveva preso lui le redini della brigata, in breve tempo era divenuta la miglior tavola milanese, al primo piano di una delle piazze più centrali della città, piazza della Scala.
Un vero e proprio luna park per appassionati, una sala giochi gastronomica capace di sorprendere fin da subito e in grado di continuare a farlo, anche dopo l’ennesima visita.
Poi il fulmine a ciel sereno: un divorzio lampo, un comunicato stampa al vetriolo e, da un giorno all’altro, all’apice prestazionale della cucina, si è deciso di mettere fine a una delle poche certezze dei gourmet meneghini e non solo, sedotti e abbandonati.
Avevamo lasciato Palazzo Parigi lì, in corso di Porta Nuova, a due passi dal centro. Una delle aperture più chiacchierate del 2013, un lavoro pazzesco per la realizzazione di un imponente hotel, dalle dimensioni inusuali per una nuova realizzazione in questa zona, estremamente ambizioso nonché oltremodo lussuoso, che porta nel nome la città a cui si ispira.
Non solo “nome” però. Per la progettazione degli interni la proprietaria, l’architetto Paola Giambelli, si è rivolta ad un consulente di assoluto prestigio: Pierre Yves Rochon, famoso per aver firmato un buon numero di Four Seasons (tra cui il George V a Parigi e quello a Firenze) oltre a innumerevoli altri hotel di lusso, come il Peninsula di Shangai od il Savoy a Londra, ed il risultato di quest’opera milanese è indubbiamente allineato alle altre realizzazioni.
L’offerta ristorativa è chiaramente tarata sugli standard di un hotel 5 stelle lusso e comprende, oltre all’ovvio room service h24 ed al ristorante principale, un ampio bistrot interno, con tanto di veranda affacciata sul giardino di proprietà, ed un eccellente cocktail bar, ambedue adiacenti al ristorante e quindi anch’essi immersi nel medesimo lusso dell’hotel. Non delle costole quindi, ma, a tutti gli effetti, parti integranti della struttura, in grado di proporre costantemente qualità, da mattina a notte fonda.
Per quanto riguarda la punta di diamante dell’aspetto gastronomico non si è certo andati per il sottile: una splendida sala, dal tanto stridente quanto mirabile contrasto tra gli arredi moderni e le suppellettili classiche, con una sorta di altare protagonista in sala, proprio di fronte all’ingresso delle cucine, a disposizione dello chef per finiture “in diretta”, appena prima del servizio.
Ristorante fiore all’occhiello della struttura, non solo per la bellissima sala, ma soprattutto per le cucine: all’apertura si era molto parlato del ristorante principale di Palazzo Parigi, “Cracco a Palazzo”, per gli ovvi motivi legati alla popolarità dello chef chiamato a dirigere queste cucine. In realtà questa collaborazione non è mai decollata anzi, si è bruscamente interrotta a pochissimi mesi dal taglio del nastro.
Eccoci qui dunque, per un’apparente chiusura del cerchio: Luigi Taglienti a Palazzo Parigi.
Potranno due inaspettati divorzi formare un matrimonio d’amore? Ce lo siamo più volte chiesti e, dopo aver inanellato svariate visite, per quanto ci riguarda ad oggi, con l’introduzione della nuova carta ma soprattutto dei nuovi menù, la risposta è assolutamente positiva.
Quella che oggi è possibile trovare a Palazzo Parigi è una versione tra le più radicali di sempre della cucina di Taglienti. Da una parte la carta, rivolta principalmente alla clientela business dell’hotel ed alla frangia più moderata degli avventori, con proposte prestigiose, più classiche e pacate.
Poi un travolgente menù degustazione a mano libera, dissacrante ed estremo.
Una cucina dalle radici fortemente tradizionali ma che riesce ad essere al contempo estremamente moderna, fatta di tecnica ma soprattutto sempre costantemente di ingrediente, con una matrice puramente italiana, dall’influenza fortemente ligure, ma a respiro internazionale, che trae molte ispirazioni ed esperienze dalla vicina Francia, geograficamente e gastronomicamente da sempre legata alla lingua di terra compresa tra le Alpi ed il mar Ligure.
Una ricerca maniacale fatta in direzione della semplicità e della pulizia, che restituisce una essenzialità a tratti monastica del piatto, con portate create anche da un solo ingrediente, come “carciofo e carciofo”, ad esempio; piatti che stupiscono non per tecnica, presente ma per nulla dominante, piuttosto per le straordinarie concentrazioni, per gli equilibri inebrianti ma soprattutto per gli azzardati ma centratissimi -e mai casuali- squilibri.
Qui non si improvvisa, non si azzarda, si spinge sull’acceleratore fregandosene di appagare ma con la volontà di stupire, riuscendoci costantemente e presentando una lunga serie di piatti che, quasi come note all’interno di uno spartito, presi da soli non avrebbero forse particolare senso, ma nel percorso del menù degustazione acquisiscono una terza dimensione, andando a comporre una sinfonia inebriante e donando un senso al menù nella sua interezza, senza dubbio uno dei più interessanti e dinamici della scena italiana attuale.
Tecnica, tradizione e materia prima al servizio della creatività del cuoco, come una sorta di ideale unione tra i dettami della nouvelle cuisine nell’idea più pura del movimento originario, e le tendenze gastronomiche attuali, la cucina di sempre con le tecniche di oggi. Una semplice e brillantissima maniera per essere à la page, senza per questo essere modaioli, tutt’altro.
E’ semplicissimo, tutto qui. Ma in pochi, pochissimi riescono a trasformare un’idea tanto semplice in una cucina tanto compiuta e convincente.
Per gli “irriducibili del numeretto” il voto risulta approssimato per difetto, in attesa di constatare se la costanza e la stabilità che ci avevano colpito in piazza della Scala si sono trasferite a Palazzo assieme allo chef, e se continueranno a presentarsi in tavola anche nei vari menù che seguiranno il primo e che noi vi racconteremo: perchè anche Taglienti, come altri che scoprirete di volta in volta, fa parte del ristretto novero di chef che seguiremo costantemente nel 2015, rendendovi partecipi di ogni cambio menù, perché riteniamo che l’eccellenza meriti attenzione costante, più volte durante l’anno.
Piccolo benvenuto che arriva appena seduti a tavola: cialda di ceci e prezzemolo.
Per ingannare l’attesa, un eccellente pinzimonio.
Si parte, con il “solito” ottimo Acqua, olio, limone e liquirizia, in una versione ove prevale la liquirizia sul resto. Un fresco ed intelligente reset per il palato.
Bianco e Nero di seppia.
Il piatto più compiuto tra tutti, oramai vero e proprio signature dish di Taglienti: un battuto sottilissimo di seppia copre una panna cotta ai ricci di mare, finito con olio al peperoncino, nero di seppia e un croccante spaghetto soffiato. Piatto complesso, ghiotto, completo, più rotondo rispetto al resto del menù ma non per questo meno convincente e stimolante, anzi.
Insalata Croccante.
Un altro classico di Taglienti, le “cialdine stagionali”, questa volta in versione cialda di insalata, con gocce di agrumi, marcatamente acide. Divertente portata da affrontare con le mani.
Carciofo e carciofo.
Modulazione di carciofo, in perfetto equilibrio tra la tannicità di cuore e gambo e l’aromaticità erbacea del brodo (di carciofo), servito tiepido per aiutare l’estrazione dei profumi. Materia all’ennesima potenza.
Cardo e cardoncello.
La versione gastronomica del Bartezzaghi, ovvero come prendere due ingredienti e farli stare bene assieme, e non soltanto per l’assonanza linguistica. Lieve acidità per il cardoncello e marcata nota bruciata dalla cottura del cardo, che aiuta ed allunga a dismisura la persistenza del boccone. Claustrale nella concezione e nell’aspetto, molto meno nel risultato.
Ostrica verza e musetto.
Un boccone semplicissimo, dall’equilibrio ardito ed incredibile: molto amara la verza, estremamente sapido-iodata l’ostrica, rotondo e colloso il musetto. Tre ingredienti fortemente caratterizzanti, che insieme trovano un’armonia inaspettata: come fare altissima cucina partendo dall’idea… di una casseoula.
Un nostro autorevole commensale si è alzato ed è sparito a complimentarsi verso le cucine, esclamando “…venti ventesimi! …venti ventesimi!”. Piatto totale.
Fegato e ibisco.
Il piatto meno convincente del lotto, che a questi livelli significa comunque un piatto eccellente. Lodevole l’idea, un po’ meno compiuta la realizzazione, con l’estratto di ibisco che nonostante la notevole concentrazione non ha profondità a sufficienza, e svanisce prima di riuscire a contrastare la grassezza del foie.
Fusillo oro.
Un piatto simbolico, in grado di rappresentare quello che è questa cucina. Un “piatto di pasta” che in realtà tale non è: la portata ruota attorno al concentratissimo frutto della passione, dall’acidità verticale, che avvolge i fusilli e che li utilizza soltanto come texture, e che grazie a questi ultimi viene smorzata nell’intensità ma amplificata nella persistenza. Mentre si attenua l’acidità, emerge la nota sapida del caviale, allungando ulteriormente la persistenza. Stellare.
Spago champagne.
Altro eccezionale piatto di pasta, basato sulla notevole acidità dello champagne nella ricca mantecatura, che s’intreccia alla marcata aromaticità del tartufo nero e che utilizza la pasta come veicolo per trovare armonia in bocca.
Gamberi e lenticchie
Concentrazioni, dicevamo?
Frattaglie in umido.
Un bignami di quinto quarto, un insieme di frattaglie rese ben più “vispe” da una compressa, dolce ed acida salsa di pomodoro.
Piccione al caffè e cappuccino.
Altro piatto che gioca in un campionato altissimo. Un piccione di qualità sublime, anch’esso come la pasta relegato a sola base, in maniera forse un po’ irriverente ma coraggiosissima, per un piatto estremamente e volutamente sbilanciato verso l’amaro grazie alla marcata presenza del caffè, che diviene “cappuccino” sul finale grazie alla lieve attenuazione della panna.
Nota fortemente positiva l’idea di voler abbattere il cliché legato al lusso dell’ingrediente, quindi rendere protagonista il caffè e comprimario il piccione. Unico dubbio relativo al fatto di poter forse ottenere il medesimo risultato con un altro ingrediente, senza mortificare una splendida e preziosa materia prima. Al netto di ciò, un piatto sublime.
Lepre royale.
La sesta inserita dopo aver portato a limitatore la quinta: il più classico dei classici, eseguito in maniera impeccabile, denota una grande padronanza ai fornelli ed un ossequioso rispetto del passato. Inserito in un menù del genere (dalla carta) è rigenerante e appagante quanto la fontanella gelata dopo una partita di basket, sotto il sole di luglio.
Mandarino e cardamomo.
Un perfetto predessert: il mandarino acquista profondità grazie alla lieve gelificazione, ed il cardamomo dona una delicata aromaticità speziata, con l’olio d’oliva a fare da viscoso trait d’union.
Zucca e chinotto.
Ponte tra la Lombardia e la Liguria, un boccone dolce composto da amaretto, zucca e mostarda (di chinotto) che omaggia i tortelli di zucca, in versione dessert.
Babbà ai profumi di Liguria.
La metà di un piccolo panettone, imbevuto come fosse un babà. Una bonus track natalizia, per nulla scontata.
Piccola pasticceria: semplice, classica, di gran livello.
I vini che ci hanno accompagnato durante il lungo pranzo.
La sala, con il mastodontico piano a induzione protagonista in centro, proprio di fronte al tunnel in vetro che conduce alle cucine.
L’altra, splendida, metà della sala.
Parte del bistrot ed il bancone del cocktail bar, visti dalla sala del ristorante.
Bisognerebbe cominciare con “c’era una volta” per raccontare la storia che riguarda uno chef, Heinrich Schneider, uno stupendo albergo, l’Auener Hof di Sarentino, e il relativo ristorante, Terra. Una favola che, per qualche strano scherzo del destino, negli anni non ha avuto lo stesso appeal di “Hansel e Gretel” o di “La bella addormentata nel bosco” ma che, se analizzata, mostra il loro stesso spessore.
Lasciandosi alle spalle Bolzano si comincia a salire, tra tornanti e gallerie, fino ad arrivare a Sarentino, altopiano circondato dai monti, al confine con il mistico, che pare essere appoggiato quasi in bilico tra prati verdi e ruvide rocce montuose. Si sale ancora, la strada si stringe, diventa ancor più tortuosa, si entra quasi in una realtà parallela, lontani da tutto e da tutti. Poi, d’improvviso una struttura, moderna, accogliente, romantica: l’hotel della famiglia Schneider, affiliato Relais & Châteaux, si presenta così, dando sollievo.
Le accoglienti camere, sobrie e confortevoli, la Spa con la sauna e l’idromassaggio panoramico sulle alpi, il bagno di fieno che rilassa qualora ce ne fosse ancora bisogno prima della cena che di lì a poco si andrà a degustare in quella campana di vetro che è il ristorante Terra.
Un’ampia sala accoglie i clienti. Luci soffuse, i tronchi di betulla evocano i boschi che al di là delle vetrate circondano la struttura. Tutto pare ovattato, rallentato, quasi si fosse all’interno di una di quelle sfere che quando agitate mostrano la neve, per la gioia dei bambini.
Il buio cala, la neve scende, lo sguardo è catalizzato dalla cucina a vista, dove officiano Heinrich Schneider e la sua squadra. Un luogo magico.
La sorella Gisela coordina e dirige la sala in una maniera discreta e professionale, i modi sono delicati, le tempistiche perfette mentre la cantina, in linea con la cucina, è squisitamente altoatesina.
Niente carta delle pietanze, solamente due menù degustazione, uno da 9 portate, l’altro da 16.
Lo chef propone e racconta il suo territorio, l’Alto Adige, attraverso un viaggio su e giù per i monti, attraversando boschi e fiumi, verdi prati e fienili. Una cucina saggia, fine, pensata ma assolutamente comprensibile.
Le entrée accolgono gli avventori con i profumi della superficie del bosco, gli aghi di pino, il timo, il lampone, le rose. Poi, piano piano, dall’impatto olfattivo che si ha di primo acchito arrivati in montagna, si passa agli umori di laghi e fiumi.
Si prosegue la degustazione tra un colpo da maestro e l’altro, in una sorta di simulazione di camminata montana che diviene sempre più intensa e profonda mano a mano che si prende coscienza del territorio.
Ecco i pascoli, i vitelli, i manzi e le pecore che brucano nei prati con tanta voracità da assaporare perfino le radici delle erbe. La radice del prezzemolo, la scorzanera, qualche fungo.
Una cucina che fa dell’ironia un intramezzo tra portate piuttosto drammatiche, con tutte le accezioni positive che questo termine può avere. Di intensità sconvolgente i diversi brodi, veri e propri fiori all’occhiello della cucina di Schneider.
Lo sciroppo di pomodoro con erbe e cagliata di latte fresca è una geniale riesumazione del ricordo di qualche pizza malauguratamente mangiata in una valle tirolese, in cui passata di pomodoro e basilico venivano sostituti con concentrato e origano. Risultato mozzafiato, in un boccone un brutto ricordo viene di colpo cancellato e rimpiazzato in positivo da un altro con gli stessi sapori.
Poi ancora le malghe, con il loro odore di fieno, le verdure e i loro semi. I formaggi stagionati e lavorati da mangiare con un frutto appena colto.
Ed infine la mentuccia che rinfresca, i frutti di bosco, il latte, la corteccia dei pini.
Non si finirebbe mai di raccontare quanto visto in quella passeggiata durata 16 portate al ristorante Terra.
Fortunatamente tutto questo non è affatto una favola ma pura realtà, della quale è consigliatissimo appropriarsi il prima possibile.
La mise en place.
Il pane: con mirtilli e lavanda quello viola, semplice e sublime quello con lievito madre al naturale
Da accompagnare con il burro nature, con quello alla cenere di betulla e con del sale e carbone
Patata al bronzo cotta nella terra
Da intingere in una emulsione di erba e grano
Si parte alla grande, la cenere si sposa benissimo con la consistenza della patata e viene ingentilita dall’emulsione di erba e grano
Essenza di capriolo con frutti di bosco disidratati e schiuma di speck affumicato. Il primo brodo lascia già il segno. Il gusto di base del consommè di capriolo accoglie la mineralità dei frutti di bosco e l’affumicato dello speck, mentre nel finale escono anche note dolci.
Foglia di lampone con polvere di rose ed odori (timo, aneto, anice, zenzero, sale nero e aghi di pino). Il primo passo in un bosco umido, calpestato che sprigiona tutta la sua forza umorale.
Si comincia con la degustazione. Textura di zucca con anice e basilico. Zucca cotta in uno sciroppo di zucchero, semi fritti in olio di oliva e spuma degli stessi semi. Piatto assoluto, dolce, tostato, amaro che esce dai semi di zucca, retrogusto balsamico.
Salmerino della Val Passiria marinato al papavero, gelè all’aceto di lamponi, pesto alla menta e rape rosse e neve di rafano. Piatto meno complesso, tendente al dolce con note verdi che emergono alla fine di ogni boccone. Il salmerino, molto delicato, si perde un po’.
Muschio islandese con manzo di razza grigia e schiuma di Sarcodon Imbricato (fungo locale). Piatto caratterizzato dalla croccantezza del muschio che si sposa bene con la setosità del fungo e della carne.
Uova di gallina di stato brado della Val Sarentino con morchelle e caviale di lavarello. Prima “tregua” del menù con un piatto molto goloso, di chiaro stampo classico, ottimamente eseguito.
Sciroppo al pomodoro con erbe e cagliata di latte fresca.
Spaghetti al lievito con asperula. Grande spaghetto. L’acidità del lievito madre nell’impasto si armonizza con la sensazione lattica data dalla stellina odorosa e viene esaltata grazie al lime grattato a crudo.
Filetto di lingua di vitello profumato con erbe e radice di prezzemolo, latte e scorzonera. Consistenza della lingua straordinaria, scioglievole e grassa. La scorzonera dona tonicità al piatto, equilibrandolo perfettamente.
Tortellini al formaggio “Hinterprosl” con polvere di germogli di pino, orzo e tartufo. Unico passo falso della serata. Piatto un po’ fine a se stesso, slegato.
Filetto di luccioperca agli aromi di bosco con petali di fiordaliso essiccati, rapanelli e cicerchia. Tanto bello quanto buono. Il brodo alla base del piatto è un altro colpo da maestro
BeefTea di manzo di razza grigia con funghi autunnali (finferli, trombe dei morti e porcini). Abbiamo finito gli aggettivi per i brodi di Schneider.
Maialino da latte cotto 24 ore nella sua essenza, crema di foglie di prezzemolo, schiuma di patate e caviale di salmerino. Altro bel passaggio. Di primo acchito morbido e rotondo il maialino viene reso persistente e verticale dalla crema di prezzemolo.
Filetto di vitello in 2 texture:
Essiccato con spezie ed aromi, crema di cavolfiore e cipolline.
Il cuore del filetto.
Piatto della serata. Complesso, sofisticato, completo. Il retrogusto di spezie persiste in bocca ricordando gli aromi del vin brulé. Semplicemente perfetto.
Formaggio di malga stagionato con gelato al fieno e mostarda di pere. Bel predessert che gioca sul caldo-freddo dato dal formaggio caldo e il gelato
Crema di birra scura Sixtus con pane alla segale e caramello
Briciole di torta alla rapa rossa, gelato alla ricotta di capra, sorbetto al crespino, pimpinella e menta. Dolce che urla “Alto Adige!”
Tortino al ciccolato con corteccia di pino e gelato al siero di latte. Bel finale
La piccola pasticceria.
La splendida sala panoramica.
Un altro “cliente”…
Il panorama