Riuscire a reinventare luoghi ideati e progettati per tutt’altre destinazioni, spesso sproporzionati nelle dimensioni e disarticolati nella distribuzione delle superfici, è impresa che desta sempre fascino e ammirazione.
Farlo, poi, in un esempio di mastodontica archeologia industriale come l’ex mattatoio di Roma, nel cuore della città, al Testaccio, applicando felicemente anche canoni estetici oltre il perseguimento di una concreta funzionalità, è opera ancor più degna di considerazione.
Nel Campo boario che ne costituisce parte integrante, affianco alla Città dell’altra economia, ecco allora, da circa un anno e mezzo, La Stazione di Posta.
Definirlo semplicemente un gran bel locale moderno e versatile appare riduttivo più che superficiale.
Dai sanpietrini per terra, alle enormi vetrate che permettono alla luce di essere parte integrante dell’architettura e della definizione degli spazi, alle suppellettili vintage disseminate qua e là, fino alle separazioni solo apparenti tra le varie zone e all’enorme dehor che funge da vera e propria risorsa nella risorsa, tutto concorre alla sensazione di essere in un loft polifunzionale degno di una grande capitale europea.
C’è il cocktail bar aperto dal pomeriggio, l’opportunità a pranzo di pasti veloci, leggeri, a prova di spending review e il vero e proprio ristorante serale.
Qui, per completare coerentemente il rinnovamento intrapreso, si è deciso di puntare, da poco più di un anno, su Marco Martini.
Diversi anni di collaborazione con Antonello Colonna lo hanno forgiato a dovere, l’imprinting è chiaramente riconoscibile, anche se personalità e autonomia sembrano non difettare a questo giovane chef.
Lo stile di cucina adottato, certamente tradizionale, soprattutto nella scelta degli ingredienti utilizzati e nella ricerca di una rotonda golosità di fondo, lascia spazio, infatti, a una visione meno scontata e contaminata da particolari che lo rendono vivace e interessante.
La volontà di trovare una propria strada si vede, anche se ancora allo stato embrionale e, pur non essendo ancora coronata da piatti folgoranti, sembra il viatico migliore per un percorso che non sia la pura riproposizione di idee e concetti altrui.
Un semplice ma efficace plumcake alla panzanella, l’impeccabile animella sapientemente accostata al chinotto, gli ormai famosi ravioli di pollo alla cacciatora cotti al vapore, una riuscita rivisitazione di un dolce classico come la zuppa inglese, sono inequivocabili testimonianze di tale processo.
Si sta bene, ma, soprattutto, si intravedono incoraggianti segnali per il futuro.
Interessante la carta dei vini con un’ampia scelta vini biologici e la possibilità di accompagnare il pasto con cocktail appropriati.
Interno.
Rum, aperol, agrumi e zenzero.
Marshmallow di parmigiano con straccetti di manzo e rucola.
“Uovo” con carbonara
Cozza in guscio di pasta fillo al nero di seppia con maionese al limone.
Spuntatura in salsa barbecue con golosa crocchetta di uovo e patate con polvere di cipolla disidratata su formaggio Cheddar.
Ventresca di tonno su plumcake alla panzanella, crema di pomodoro, maionese, alghe disidratate.
Ravioli di pollo alla cacciatora cotti al vapore con ristretto di soia e brodo di patate arrosto
Rigatoni mari e monti con chorizo in evidenza
Piccione, scorzonera e caffè
Animelle al chinotto e carote, buono anche se la composizione del piatto è un po’ confusa
Mousse alla ricotta con pera.
Convincente versione della zuppa inglese.
Bonsai dei desideri.
Nobile espressione di Fiano.