Passione Gourmet Antica Osteria Nonna Rosa, Chef Peppe Guida, Vico Equense (NA), di Fabio Fiorillo

Antica Osteria Nonna Rosa

Ristorante
via Bonea 4, Vico Equense (NA)
Chef Peppe Guida
Recensito da Fabio Fiorillo

Valutazione

16/20 Cucina prevalentemente classica

Pregi

  • Selezione accurata della materia prima a prezzi concorrenziali

Difetti

  • Non ha vista mare, e in Penisola Sorrentina è un “minus”
Visitato il 02-2013

La lontananza dalle strade più battute della Penisola Sorrentina potrebbe essere un deterrente per chi intende inerpicarsi per le strette viuzze di Località Pietrapiana, ma siamo certi che difficilmente vi pentirete della deviazione.
È davvero incredibile che di Peppe Guida se ne parli così poco.
Il protagonista di questo locale (“osteria” solo di nome) ha talento da vendere e nulla da invidiare a tanti cuochi, vicini e lontani, ben più acclamati di lui.
Pranzare al Nonna Rosa, nonostante la sala piena, com’è accaduto a noi, può essere un’esperienza.
Un viaggio tra le insenature della Penisola Sorrentina e i tornanti dei Monti Lattari.
La valorizzazione dei prodotti del territorio è ai massimi livelli.
Vivere sul mare, ma a pochi chilometri dai monti, può essere un grande vantaggio per chi ha voglia e capacità di sperimentare e di coniugare elementi apparentemente inconciliabili.
La proposta di Guida ha una sua personalità, con sapori decisi ma mai eccessivi, ha equilibrio ed è caratterizzata dal fil rouge di una notevole qualità della materia prima.
Colpisce, rispetto a precedenti esperienze, l’evoluzione positiva della sua cucina, tendente alla finezza, in molti casi raggiunta senza rinunciare alla concentrazione del gusto, cifra stilistica che ha sempre caratterizzato l’osteria.
A ciò si aggiunge un ambiente di fascino, arredato con cura nonostante alcuni spazi obiettivamente angusti, e un servizio attento che ben sa interpretare i gusti della clientela.
“Peppe fa’ tu” è ciò che i clienti di lungo corso dicono allo chef, e allora perché non canonizzare questa formula nel menù a mano libera proposto ad un costo difficilmente replicabile altrove, per qualità e numero delle portate?
Tanto pesce ovviamente, ma anche carne, formaggi e le verdure dell’orto che giocano un ruolo di primo piano, come negli straordinari tortelli con formaggi dolci, crema di pere e noci caramellate.
Uno dei signature dish è la palamita con olio, limone, camomilla e patate schiacciate. Di semplicità e bontà uniche, che fanno comprendere che il palato conta quanto la tecnica.
Reparto dolce finalmente ai livelli delle portate salate. Classicità e tradizione della mitica pasticceria napoletana sono sublimati nella reinterpretazione della “Santarosa”, davvero splendida.
Lievi errori come l’eccesso di cottura, ad esempio, nella scaloppa di ricciola, non inficiano il giudizio che premia non solo la costanza qualitativa, ma anche i miglioramenti riscontrati.
Gli appassionati enoici avranno di che divertirsi: la cantina vanta una bella profondità ed etichette non sempre scontate. È previsto l’abbinamento al bicchiere, proposto a prezzi concorrenziali.
Peccato per la mancanza di un degno panorama, che in Penisola è un minus, ma con cotanta cucina potrete farne, per una volta, anche a meno.

Tonno, fiordilatte e mandarino. Il segreto di questa portata è nella giusta proporzione degli ingredienti. Pulizia e nettezza dei sapori.

Palamita, olio, limone, camomilla e patate schiacciate. Piatto simbolo del nostro percorso.

Migliaccio, sottogola di maiale, friarielli e fiordilatte. Tradizione rivisitata, molto bene.

Linguine cacio e pepe, lupini e limone. Piatto di difficilissima esecuzione. Se le proporzioni degli ingredienti non sono perfette (e nel nostro caso lo erano) si è ad un passo dal disastro.

Ravioli ripieni di formaggi dolci, salsa di pere e noci caramellate. Toni suadenti in un piatto di grande tecnica.

Tortello con baccalà e carciofi. Ancora una volta sfoglia perfetta e gusti netti.

Zuppetta di scarole con insalata di mare, cotta e cruda. Qui è la materia prima, eccelsa, a giocare un ruolo fondamentale. Perfetto l’abbinamento con il vegetale della tenerissima scarola.

Ricciola, zuppa di friarielli, salsa al peperone crusco. Peccato per la cottura leggermente prolungata della ricciola.

Conchiglione freddo con ventresca di tonno. Piacevole intermezzo. Boccone prelibato.

Bollito di manzo, il suo brodo, carciofo. Tutto al posto giusto, anche se un piccolo slancio, osare un po’ di più anche con l’abbinamento, sarebbe stato auspicabile.

Sorbetto al limone.

Come una “Santarosa”, gelato al fior di ricotta e arancia candita. Uno dei pochi casi in cui la rivisitazione di un grande classico riesce a migliorarlo. Semplicemente straordinaria.

Piccola pasticceria, davvero ben fatta: mini caprese, biscotto all’amarena, zeppole di patate, fichi caramellati.

Sala

Sala. Particolare

Rosa sui tavoli.

8 Commenti.

  • leo26 Marzo 2013

    Ottimo Fabio. Sono d'accordo anche sul voto: per me un 16 pieno.

  • Federica27 Marzo 2013

    Non sono brava a dare voti, ma ho avuto il piacere di assaggiare parecchi dei piatti descritti ed è stata una vera goduria. Le prime volte che ho mangiato da Peppe era una sorpresa; adesso ogni volta è una conferma: so che mangerò benissimo e ogni volta c'è qualche novità ad attendermi.

  • Massimiliano27 Marzo 2013

    Fantastica recensione! Complimenti veramente! … Siete riusciti a “parafrasare” l’Essenza di questo piccolo salotto di Alta Cucina, dove per “Alta” non si intende certo una Cucina di sovra-strutturazioni e fronzoli inutili (così tanto di “moda” attualmente), ma una Cucina di Sapori, di Qualità, di “Cuore” … Oggi, ahimè, così difficile da riscontrare! Torno da Peppe (e soprattutto dalla Nonna Rosa) quasi ogni mese, ed ogni volta è un’Esperienza, con la “E” maiuscola, a 360 gradi! … Un posto dove ti senti in famiglia, a tuo agio, per gustare sapori “autentici”, che pur se strizzano l’occhio all’Innovazione, non si “spingono” mai oltre il dovuto … coniugando in maniera, a parer mio geniale, il concetto di “comfort food” con quello di Alta Cucina, appunto! Per quanto riguarda il discorso prezzi … Be’, questo e’ un altro PARADOSSO … Ovvero, non riesco a capire perché la gente affolli gli “anonimi” ( ma molto alla buona, nulla da dire) ristorantini vicini, spendendo gli stessi soldi per un altrettanto “anonimo” pasto … Quando invece da Peppe sei coccolato dall’inizio alla fine, hai la possibilità di fare un viaggio nella Tradizione (e nell’Innovazione), hai una Qualità della materia prima a livelli massimi, sei comunque trattato come da un Ristorante Stellato ci si aspetta di essere trattato (anche se, ripeto, il clima che si respira tutto è tranne che freddo, ingessato o quant’altro rientra spesso nello stereotipo del Ristorante Stellato, appunto)… E tutto questo a prezzi uguali (se non addirittura più bassi) di tali Ristorantini … Capisco che magari la Stella Michelin psicologicamente possa spaventare.. Ma, sinceramente non comprendo come possa “mistificare” e deviare fino a questo punto … Per il momento mi sono prenotato per il Pranzo Pasquale… ad un prezzo, anche questo, “NON REPLICABILE” assolutamente, o, meglio, replicabile si, ma in uno dei Ristorantini di cui sopra… Resta un altro interrogativo, anche da voi giustamente sollevato e al quale ancora non sono riuscito a dare una risposta… “È davvero incredibile che di Peppe Guida se ne parli così poco” … Buona Pasqua!

  • gianni revello19 Aprile 2014

    Coordinati, in ravvicinata successione, per l’annata espositiva in corso tre importanti musei italiani hanno deciso di allestire ciascuno una specifica antologica delle opere di quello che è, non da oggi anche se ignoto ai più, uno dei più grandi artisti italiani, Ettore Spalletti. Doveroso omaggio a un maestro che ha sempre operato con una sensibilità profonda al di fuori di mode e correnti. Primo il MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo) a Roma, la GAM (Galleria d’Arte Moderna) a Torino a seguire e ultimo nei giorni scorsi il MADRE (Museo d’Arte Contemporanea DonnaRegina) di Napoli. Se la passione per l’arte vivente mi ha portato alle tre mostre, bellissime, che mi sento di suggerire a chi volesse, in tattilità a distanza, toccar con gli occhi forme e colori essenza d’una contemporaneità italiana non di corto respiro e neppure omologata su quella sorta di international style che turbina nelle fiere d’arte in giro pel mondo, per quell’altra mordente passione, calata in quel di Roma, ho avuto solo modo di passare da Caceres per ottimo de gustazione al Metamorfosi, una delle migliori tavole della capitale. A Napoli invece, fatta salva l’inaugurazione al Madre, mi sono dato un po’ più d’ore, per visitare intanto una città della quale non si conoscono mai abbastanza l’unicità e le bellezze. Ecco allora che tra le tante altre cose colpevolmente mai avevo varcato la soglia della grandiosa suggestiva Cappella Sansevero, all’interno della quale, tralasciando le arcane simbologie, si vien mossi da meraviglia in arte (su tutto lo straordinario estremo esito barocco del marmo del Cristo velato) e in metascienza (le macchine anatomiche, rimpallo di natura e d’artificio). Né, notevole anch’esso, mai avevo varcato quella di San Gregorio Armeno, luogo nel quale sono avvenute e ancora avvengono essudazioni e liquefazioni di santi. Qui però (Santa Patrizia di Costantinopoli a parte, alla quale se invocata viene ascritta la tendenza a manifestarsi il martedì) con una minore periodicità e pompa rispetto a quel che connatura l’assai più celebrato San Gennaro in Duomo. Sempre in zona, in piazza San Domenico Maggiore, mi sono poi fermato a pranzo a Palazzo Petrucci, menù di tutto rispetto, piatti particolarmente apprezzati: la Lasagnetta di mozzarella di bufala campana e crudo di gamberi su salsa di cavolo broccolo, la Zuppa di cipolle gialle napoletane profumate all’alloro con uovo e pecorino di Carmasciano e il Timpano di paccheri all’impiedi ripieni di ricotta con ragù e grattugiata di ricotta di pecora. E in particolare la possente concentrazione di codesto ragù mi ha ricordato come mai altro da allora (e dico un primo entroterra ligure anni ’50 secolo scorso) quello che mia nonna faceva, pentola di coccio, ore e ore, sul suo ronfò (ovvero il nome ligure per il camino a mattoni e forno metallico che era stato inventato sul finire del Settecento dal mitico Conte Rumford, il quale, genio tecnico e scientifico multiforme, en passant è stato per caso pure lo scopritore della cottura delle carni a bassa temperatura). Quando si dice tutto torna. Quindi la sera un salto da Sorbillo alla casa madre in Via dei Tribunali e full immersion nel ben composito spaccato sociale in articolata lotta per riuscire a guadagnare un tavolo. Al traguardo in velocità una pizza eccellente (e devo dire che mai ne ho digerita una così bene) a prezzi da encomio, e a occhio ne faranno 1000-1500 al dì. Dormito a Palazzo Caracciolo, che qua e là nella storia, solo qualche esempio, già fu angioino, già Caracciolo, già napoleonico, ecc. ecc. già sempre più in decadenza, ora invece assai ben restaurato efficiente e piacevole hotel per novelli bar bar i fu turisti, …e qui alla prossima di là da venire, che so, dico a caso, mosca o moschea… L’indomani, colà trasportato dalla Circumvesuviana, il meglio della due giorni per la cucina: l’Antica Osteria Nonna Rosa a Vico Equense. Felice esperienza, concordo con la valutazione qui espressa su PassioneGourmet. Una cucina di grande intensità, di raffinata schiettezza, in grado di esaltare una specifica territorialità (l’85% di quello che arriva in tavola è di origine locale, e, si sa, costì luoghi da cornucopia) con sensibilità e accuratezza, senza in nessun caso cadere in infingimenti o scimmiottamenti. E prezzo/qualità da plauso per il carta bianca di Peppe Guida. Tre antipasti mare/terra ricchi, articolati ed equilibrati. Gamberi rossi crudi, caciotta e mandarino (qualità, equilibrio tra i tre elementi e in più l’aggiunta di svariate piccole foglie dell’orto a stimolare con nette tonalità fresche amare); Palamita, patate schiacciate, olio, limone e camomilla (cottura assolutamente centrata nel contesto, squisite le note aromatiche acidulate, e sul pesce anche della scarola dell’orto, tenerissima); Sauro bianco preparato come un capitone, fave, pancetta e polvere di cedro (il migliore dei tre, il sauro, che dalle mie parti è suro, o sugarello, cotto in una maniera insolita che, come mai in tal modo a mia memoria per questo pesce, ne ha esaltato la consistenza e il sapore, e ancora col contrappunto degli abbinamenti l’emergere di un insieme unico). Due primi di grande carattere e potenza, realizzati al meglio. Riso, cozze, patate, acqua di mare (la spuma dall’acqua delle cozze, il riso cotto alla perfezione, insieme appena appena brodoso, cubettini di patate, ottime cozze, prezzemolo; sapori ben distinti e ben amalgamati); Spaghetti, acciughe sott’olio, peperone crusco e pecorino (sapore deciso ma non eccessivo, vario e appagante senza saturare il gusto, giusta la quantità). Coi secondi si continua una sorta di discesa in profondità nei sapori della tradizione. Baccalà, fagioli budirri affumicati al camino e cipollotto (pelle croccante baccalà morbido e al giusto dissalato, fagioli squisiti interi e loro crema, piccolo cipollotto fritto ben asciutto) Scamone di manzo paesano arrosto, erbe di campo e patate (animale locale, carne gustosissima e l’esatto contrario della cottura a bassa temperatura –contro la quale sia chiaro, est modus in rebus, non ho nulla, anzi– ebbene, qui nel piatto alcune piccole fette, non grande dimensione e giusto spessore, in rapidità di perfetta cottura esterna, interna al rosa, buona masticabilità che fa emergere via via i succhi tra le fibre: esperienza). A chiudere, i dessert. Come un Santa Rosa, gelato al fior di ricotta (dolce squisito, pasticceria di verità sia domestica che professionale, finezza non stereotipata); Delizia al limone. Per non dire di svariate altre buone cose, all’inizio e alla fine, e l’olio (super) e i pani. Servizio al tavolo gentile e sereno. Carta bianca anche per l’accompagnamento alcolico al validissimo sommelier, col quale è stato piacevole scambiare un po’ di parole e su questo e su quello. Riesling 2007 Sudtirol Eisacktaler Strasserhof Fiano di Avellino 2009 Montefredane San Paolo Efeso Bianco 2013 Librandi Palette Rosé 2010 Chateau Simone Duca San Felice 2011 Librandi Con la pasticceria in finale Amarasca di Nonna Rosa (…Wow! No logo, ma di quelli seri, che non tutti, per carità, …e anche questa il distillo d’una volta! Sì mie prozie, mia madre no, non arrivava a tanto) Ci torno. P.S.: non mi sono fatto mancare neppure, per la pace in famiglia, la Colomba Nonna Rosa. Transitata in ultimo volo di ritorno ad alta quota. Ma già finita! A proposito: Buona Pasqua!

  • Giovanni Lagnese19 Aprile 2014

    Da Esposito non sei andato? ("Buona Pasqua" me lo sarei risparmiato!)

  • gianni revello19 Aprile 2014

    Sarei tornato volentieri a La Torre del Saracino, tre anni e mezzo fa alla fin fine era risultato il miglior ristorante di tutto il mio tour campano, per me tra 16 e 17, ma 17 dovendo scegliere. Sabato sono rimasto tutto il giorno a Napoli, il tardo pomeriggio e buona parte della sera al Madre, avevo poi solo una chance per la domenica a pranzo e allora, un po’ per mia comodità di modi e tempi, un po’ per il prezzo del carta bianca (meno della metà di quello di Esposito), ma soprattutto per provare qualcosa di diverso, ho fatto questa scelta. Una buona scelta. Per il resto avevo già risparmiato e sul menù, e sul volo low cost, e hotel più che buono trovato in offerta vicinissimo al Madre, e sulla circumvenusiana in vece del taxi, tanto che pur genovese (ma per avere in tempi non astrali una meritatamente decantata offa nei pressi del Vico del Fico al Purgatorio già Vico Salvonato già Vico dei Rota già Vico degli Offieri …mi son dovuto far napoletano!), pur genovese ho ritenuto poter dare il mio Buona Pasqua in letizia e agratis, senza tema di rimbrotto alcuno qualora non me lo fossi risparmiato, …e anzi ne attendevo congrua moltiplicata restituzione. Mi sbagliavo! :) Non avevo tenuto conto di.

  • Giovanni Lagnese20 Aprile 2014

    Sai, io sono un passatista di tipo avanguardista... :D (Sai: Coi a San Francisco sull'insapore a mio avviso più avanti di Aduriz.)

  • gianni revello21 Aprile 2014

    Sempre parco, area protetta, ma in poche parole hai accennato a più temi, i quali però, fossi tu sibilla, mai sviluppi, o acclari :) Un ‘passatista di tipo avanguardista’ no perché sarebbe solo uno dei tanti tentativi di fiutare un proprio territorio, o di guardare la realtà da un piccolo pertugio, ma già appena meglio fosse inteso non ossimoro bensì, come oggi è, pleonasmo :) E oibò! questione che richiede un minimo richiamo al desueto scienza&romanza dell’antropologia strutturale. Quando Levi-Strauss, col secolo breve prossimo all’epicentro, va ad accasarsi per un po’ dai Bororo, e così via, fa una scoperta da inserire nella serie Copernico-Darwin-Freud. Dà cioè un altro colpo alla vanagloria di un gruppo di scimmie depilate, depigmentate, e a supposta immagine di, gruppo che s’era autoeletto, bum! centro del creato. Centro va da sé esclusivo civilissimo e governato da autodeterminazione interiore ed esterna. A lor scorno, la scoperta di C. L.-S. vale a dire in sostanza che per l’umano socializzato di qualsivoglia cultura si ritrovano ad agire le medesime strutture profonde, di ugual natura indipendentemente dal genere di complessione, sivile e/o servaggia, e dal loco nel quale essa alligna. Traslato a noi, sia pure appena celiando, orbene in San Gregorio Armeno ritualità e declamazioni del verbo delle devote a Santa Patrizia e a San Pantaleone (tra l’altro ancora nel segno della predilezione tutta napoletana per i santi non-standard) si danno col medesimo misterico sapore penitenziale delle ritualità e delle declamazioni del verbo avangardista. Nell’un caso e nell’altro il tempo è situato sempre in un oltre che si perpetua, ma trapassato come codeste parole due: AvanGuardia, la quale in terminologia è d’origine militare, che oggi non vale più neppur per li eserciti, xké essa avanguardia sarebbe solo inerme bersaglio de’ droni, sostituita più tosto oggidì, e domani chissà, da corpi speciali del genere de’ guastatori. Come pure Perpetua, che curava, ora non cura più il curato. C. L.-S. e la musica: “La musica è una macchina per sopprimere il tempo”, e questo quando è in atto, …come lo è, dico, la cucina quando mangia. …La sua madeleine proustiana era una melodia d’oboe udita un lontano passato (ha vissuto cent’anni). Il suo ‘Il crudo e il cotto’ scodellato per capitoli puntigliosamente come menù musicale. Su Aduriz (…a dare i numeri il 19 resta, pur sempre tra i migliori al mondo) un po’ di tempo fa con te parlammo appunto del suo genere d’insapore e in particolare dell’elemento colloso. Ma oggi in definitiva mi pare che A., tra l’altro non più giovanissimo direi, non sia riuscito ad andare al di là della lezione del maestro, se non prendendo una via laterale che non va a mutare il paradigma (questo in ultima istanza il nodo cruciale), per dire una sorta Hugo Wolf, pura meraviglia, o, più avanti, di Webern mistico puntillista, venuti entrambi al seguito dello sconquasso della tonalità wagneriano, e, a dispetto del loro valore unico indiscutibile, sottomisura rispetto al pur discusso gigantesco W. Un menù di A. come quasi tutti quelli di moderna alta cucina è un rosario di minipiatti (non parliamo del Nord estremo, si sa lì il verbo protestante ha picchiato duro, che fare, manca il sole, …così, Folia di Spagna, per un anno intero, col nuevo Capitan Colon in testa, il Sol lo si cercherà al Levante …per buscar el poniente! :) ), o repertorio messo su a mo’ di piccoli cicli di lieder, talora di poussé in poussé, con o senza il flash (che magari sopra il piatto scatta), menù nei quali in definitiva quello che viene ormai a mancare è un più ampio afflato, di un genere più sinfonico, e nel singolo passaggio e/o all’insieme. Un Lopriore in sostanza mi ha detto molto di più. Attendo dai grandi cuochi piatti che sappiamo creare mondi non chiusi in un respiro, articolati, che so, in pluralità di servizi, ma niente: crei chi sa. Coi (Patterson) non saprei. Ma nessuno me ne ha parlato così. Il che non vuol dire. Parlane se riesci. Ho visto che fa un solo menù più o meno diverso giorno per giorno (8 piatti a 230 $ servizio compreso vino escluso), piatti che appaiono come fatti al cesello, ho letto pure che talora insuffla inietta il protagonista di un piatto di ulteriori sapori. Chi c’è stato mi ha detto gran bene ma non l’inaudito. Dì tu, se sai. Sul tema dell’insapore avevo già prima letto il libro (“Elogio dell’insapore” appunto) e poi avevo ascoltato sull’argomento la lezione di Jullien, al Festival della filosofia a Modena del 2005. Se, come si dà per molti concetti orientali, il concetto è sfumato, aperto, nonché in questo caso riferibile a tutte le arti e le aree sensoriali, l’insapore potrebbe essere visto come la cornice alla quale fanno riferimento tutti i sensi, in termini di sistemi neurali, nel riverbero tra una specifica area del ‘sapore’ (gustativo, visivo, sonoro, poetico ecc.) e le aree che ne definiscono il contesto, senza le quali ciascun ‘sapore’ sarebbe come sospeso e poco o nulla significativo o addirittura poco comprensibile. Una cucina diciamo così di primo livello (ma non l’artefatto dei due partiti, quello della ‘cucina di gola’ al quale sarebbe contrapposto quello della ‘cucina di testa’, contrapposizione che, fosse pur per metafora, continuerebbe ad avvallare una confusione cara ai bis boccia, essendo in tutti i casi - e la vecchia ‘gola’ se ne faccia ragione - la ‘testa’, il sistema nervoso, prevalentemente centrale, l’organo del gusto) ha un’interazione minore e più standardizzata con la propria cornice neurale del gusto. Cucine di livello più complesso hanno cornici link più vasti e originali. I grandi cuochi tutti hanno ciascuno propria specifica cornice d’insapore (che ripeto sia chiaro per l’occidente incallito, non sta per minus, al contrario). Sì ad esempio Marchesi, Gagnaire, Adrià, Lopriore, Bottura, Aduriz, così via Ma se restiamo al sapore nello specifico del cibo, emblema dell’insapore è l’acqua, neutra ma affatto sciapa e che, tanto direttamente nel contenuto quanto indirettamente quando il cibo è assunto, è veicolo che trasporta / lo sfondo che rivela i sapori. Infatti, nel veicolare l’acqua (interna esterna al cibo) nel veicolarla di natura in arte, lì sta il fulcro del sapere del grande cuoco, attorno al quale tutto il resto ruota, anche l’uso o meno del fuoco. Cos’è un semplice, semplice si fa per dire, perfetto taglio di un maestro se non in primis un far stillare al meglio un cibo e al meglio offrirlo all’acquoso succo salivare e al suo calore, o a un calore precedente esterno che il cibo domestichi. Ma certo dopo l’acqua viene a fluire tutta la varietà e la complessità dell’arte e della vita. E se nel cibo l’apparente semplicità fa il cuoco raro, e nel verbo la laconicità fa apparire il saggio, entrambe, simplicia e laconia, sono an celle assai più use offrir rifugio, per quel che è loro dato, a chi latita d’i dee.

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